Mentre Ursula Von der Leyen, presidente della Commissione Europea, nel corso di un punto stampa a Bruxelles, annuncia soddisfatta il reperimento di ulteriori 300 milioni di dosi di vaccino Pfizer, le quali saranno disponibili a partire dal secondo trimestre 2021, oramai da mesi, sempre in ambito europeo, si è come inspiegabilmente accantonata la questione relativa alla gestione dei flussi migratori.

La circostanza potrebbe, forse ai più, apparire naturale considerata l’emergenza pandemica e la necessità di portare avanti celermente, quanto efficacemente, la campagna vaccinale, ma, a onor del vero, alcuna azione sul piano medico potrà dirsi veramente vantaggiosa se, contestualmente, i Paesi più ricchi continueranno a chiudere gli occhi sulle realtà umane maggiormente disagiate che, se abbandonate a se stesse, possono ben divenire focolai di mutazione e implementazione del virus che tanto desideriamo debellare.

Detto diversamente: non possiamo sperare di poter garantire la “salute globale” se omettiamo di avviare una reale azione collettiva scevra da egoismi e privilegi di classe.

A colpire la mia attenzione, se proprio debbo essere sincera, non è stato certo il “silenzio” delle Istituzioni Europee in sé e per sé considerato nel suo opportunistico profilo squisitamente contenutistico, quanto piuttosto il messaggio subliminale che, secondo me, da quello stesso silenzio se ne ritrae e che ha costituito una costante nel contesto di una certa narrazione europea destrorsa al punto da farne un argomento “in negativo” di circostanza da riproporre di quando in quando all’attenzione dell’elettorato di riferimento. Parlo dell’ostracizzazione del “diverso” nella sua dimensione sociale proprio in un momento, quale quello attuale, tristemente segnato dalla crisi sanitaria ed economico-pandemica, in cui gli immigrati non solo scontano già sulla loro pelle gli effetti più intensi e pericolosi di un processo precostituito di “confinamento” necessario (è proprio brutto dirlo) rispetto al contesto sociale più ampio in cui si ritrovano ad essere quasi forzosamente inseriti, ma vanno incontro ad ancora maggiori difficoltà pratiche sul piano strettissimo della mobilità che di fatto viene periodicamente e volutamente compressa e compromessa anche da interventi legislativi estemporanei e totalmente disancorati dal quadro normativo di riferimento quali furono, ad esempio, i famosi “Decreti (In)Sicurezza” voluti dall’allora Capitano Padano Matteo Salvini.

Tanto le migrazioni, quanto i doverosi, ma non sempre incoraggiati, processi di integrazione hanno subito contraccolpi durissimi in conseguenza della situazione sanitaria contingente e la crescente esasperazione di ogni criticità connessa contribuisce ad appesantire le contraddizioni e i limiti dei tiepidissimi interventi al riguardo indirizzati da una azione politica di stampo populista e sovranista piuttosto aggressiva che tende sempre più spesso a stimolare, portandolo all’eccesso, il senso di incertezza della popolazione autoctona pur di restare al potere. La xenofobia e il linguaggio violento sono divenuti con il tempo gli “arnesi” privilegiati della comunicazione sociale e della strumentalizzazione demagogica. Realtà e percezione di un fenomeno del tutto naturale, quale quello migratorio appunto, si sono fusi, e si fondono tutt’ora, per confondersi nel comune e sempre più diffuso sentimento di ostilità verso i migranti medesimi, siccome concepiti e/o percepiti, sia pure ingiustamente quanto incomprensibilmente, non solo come causa ed effetto del disagio sociale locale, ma anche come capro espiatorio sul quale far convogliare la carica esplosiva di una rabbia sociale repressa che altrimenti sfocerebbe direttamente addosso alle classi dirigenti quali uniche responsabili del tristissimo e degradato andamento socio-economico di un Paese, l’Italia, logorato anche sul piano della morale comune.

Eppure la mobilità, quale diritto fondamentale di ogni essere umano, favorisce da sempre il confronto, la crescita interiore, l’arricchimento e il completamento reciproco. Tuttavia, ciò nonostante, si continua ad erigere muri, a discutere di “difesa dei confini nazionali” dagli “invasori” provenienti dal mare, calpestando i più elementari valori fondamentali della persona umana. Che ci piaccia o meno anche le migrazioni, con tutto il loro contenuto umano, sono oggi più di ieri una “flessione” specifica, dettagliata e necessaria dell’appressamento alla salute in modo globale e globalizzante, sicché il “curare noi stessi” deve divenire, al di là e al di sopra di ogni sterile processo di marginalizzazione razzista, atto prodromico alla “cura del nostro prossimo” extra-comunitario meno fortunato in termini materiali per “vizio storico d’origine”. L’Europa, e con essa tutti i Paesi Membri, devono finalmente comprendere l’importanza di procedere lungo la via responsabile della elaborazione di politiche sanitarie internazionali e comuni che attraverso unanimi e misurate azioni di insieme siano indirizzate alla salvaguardia della collettività in tutte le sue componenti sociali ed etniche per far in modo che alcuno “venga lasciato indietro” o abbandonato alla sua sorte.

Sembrerà paradossale: ma la salute dei migranti, che doverosamente devono essere salvati in mare e accolti, è anche la nostra salute. Solo la condivisione ragionata delle responsabilità nella gestione di un fenomeno strutturale ma profondamente umano può divenire la chiave di lettura e di interpretazione della “Società della Salute” cui aspiriamo di vivere, in armonia, nel prossimo futuro.

Giuseppina Di Salvatore

(Avvocato - Nuoro)
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