Il 9 maggio 1977 trovarono il suo corpo dilaniato da un'esplosione sui binari della ferrovia vicino a Cinisi, il suo paese. Peppino Impastato, nel pieno degli "anni di piombo", era stato così trasformato in terrorista. Lui, 30 anni, militante di Democrazia Proletaria, candidato alle elezioni comunali del piccolo centro del Palermitano, era un pacifista, un non violento. Con la sua creatura "Radio Aut", nata nel 1977, aveva messo nel mirino la mafia locale che aveva in Gaetano Badalamenti il suo padrino e la Democrazia cristiana il partito di collegamento per gli affari, compreso l'aeroporto di Punta Raisi. La sua morte finì in un trafiletto sui giornali perché quel giorno, l'Italia si risvegliava con il ritrovamento del cadavere di Aldo Moro nel bagagliaio di una Renault in via Caetani. La mafia non poteva pretendere di più e di meglio, perché Peppino dava fastidio.

"Le sue idee danno fastidio anche oggi", dice Giovanni Impastato. E spiega: "A distanza di tanto tempo rappresentano ancora il vero concetto di legalità, e parlano di rispetto dell'uomo, di chi lotta per migliorare il mondo in cui vive".

Ma lei immaginava che suo fratello potesse diventare un'icona della lotta alla criminalità organizzata? "Sono sincero, non mi aspettavo che lui entrasse nella storia dell'antimafia facendoci entrare anche me che ho raccolto il suo testimone e ho proseguito le sue battaglie. Però ho sperato che diventasse un punto di riferimento per le nuove generazioni".

Ma da voi, in Sicilia, le cose sembrano non cambiare. Qualche mese fa lei ha subito l'ennesima intimidazione, un attentato alla sua pizzeria: perché? "Perché noi portiamo avanti il messaggio di Peppino, apriamo centri dove si discute e ci si apre alla società e agli uomini, dove si cerca di rafforzare il concetto dello stare insieme nel rispetto non solo delle leggi ma anche della natura e di tutto ciò che ci circonda. Erano le riflessioni di un giovane degli anni Settanta e che credo siano ancora attuali".

Lei, nel film, appariva un po' distaccato dal gruppo della radio e dagli eventi che venivano organizzati, mentre Peppino era sempre in prima fila, come mai? "Ero il fratello più giovane, partecipavo agli incontri, ascoltavo ma non avevo certo la brillantezza e il coraggio di Peppino. Questi aspetti li ho sempre apprezzati. Non sarei mai stato come lui, ma avevo promesso a me stesso e a mia madre che Peppino non sarebbe morto invano".

Però ci sono voluti cinque anni e l'intuizione di Rocco Chinnici, giudice istruttore e anch'egli vittima della mafia, prima di aprire un fascicolo per omicidio a carico di ignoti sulla strana morte di Peppino.

Peppino Impastato, sotto i locali della Radio Aut di Cinisi qualche mese prima della sua morte (L'Unione Sarda)
Peppino Impastato, sotto i locali della Radio Aut di Cinisi qualche mese prima della sua morte (L'Unione Sarda)
Peppino Impastato, sotto i locali della Radio Aut di Cinisi qualche mese prima della sua morte (L'Unione Sarda)

"In tutto questo tempo abbiamo sollecitato carabinieri, magistrati e opinione pubblica affinché l'omicidio di mio fratello non venisse archiviato come morte accidentale causata dalla stessa vittima. Eravamo rompiscatole, disubbidienti, ma di attentati non se ne parlava mai. Anche perché erano l'esatto opposto di quello che intendevamo per battaglie civili e legali. Sapevamo molto bene, invece, che a uccidere Peppino era stata la mafia e che il mandante era Gaetano Badalamenti, boss di Cinisi e alla guida, lo scoprimmo anni dopo, della commissione di Cosa Nostra".

Quest'anno, a causa dell'emergenza sanitaria, il consueto corteo per ricordare Peppino Impastato non si farà: le dispiace? "Più che dispiacermi, in questi ultimi mesi è cresciuta la mia preoccupazione".

Pensa alle scarcerazioni di diversi boss avvenute nei giorni scorsi? "Non sono uno che nega le garanzie processuali o i diritti civili, sarebbe assurdo per me, per mio fratello e per le battaglie portate avanti finora. Ma, consentitemi, qui stiamo parlando di criminali molto pericolosi, di persone che hanno commesso delitti gravissimi. Io penso ai familiari delle loro vittime, oggi convinte che abbiano meno tutele dei loro carnefici. Credo sia una vergogna che sto vivendo con profonda amarezza. Mi sembra un'altra sconfitta e un passo indietro per il movimento al quale anch'io, insieme a tantissimi altri, ho contribuito a far crescere".

Oggi, stando alle cronache, la mafia sembra tornata alle sue abitudini, cioè lavorare sotto traccia ed evitare la violenza che, si sa, porta a intensificare i controlli e mantenere pressione sull'organizzazione: è così? "E' quello che appare all'esterno. Un po' sulla falsariga della strategia adottata da Badalamenti. Non dovrei dirlo, è l'assassino di mio fratello, ma quando gestiva lui il potere mafioso non si ammazzavano i giudici, i poliziotti e i carabinieri. Poi è arrivato Totò Riina ed è cambiato tutto. Quei tempi sono lontani, perlomeno sembrano lontani. Ma io sono sempre più convinto che la guardia non vada mai abbassata. Anche queste scarcerazioni sono dei segnali che nessuno avrebbe voluto vedere proprio per non cogliere la loro pericolosità".
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