Alla fine lo hanno chiuso: per poco forse, ma lo hanno chiuso, dice l'azienda.

Il caso dei reflui pugliesi trattati nell'impianto della Geco, a Magomadas, per ora si chiude così, con una rinuncia da parte dell'azienda a far arrivare altri fanghi, fino a che dice Leonardo Galleri, rappresentante legale della Geco, che appartiene al 95% all'imprenditore sassarese Bonifacio Angius.

La Geco srl nasce per trasformare i fanghi provenienti da reflui di Acquedotti pugliesi in ammendante per agricoltura. Può trattare fino a 80mila tonnellate di reflui all'anno, circa 350 tonnellate al giorno. L'impianto (che aveva ottenuto dalla Regione il premesso di procedere alla richiesta di autorizzazioni, in via ordinaria, senza passare per Valutazione di impatto ambientale) era stato autorizzato dalla Provincia il 24 ottobre del 2018 e nel mese di luglio del 2019 aveva iniziato l'attività.

I primi camion di fanghi pugliesi erano arrivati proprio nel bel mezzo del periodo estivo. Una decina di Tir al giorno, il cui carico veniva svuotato nelle 6 vasche attive. Il clima torrido non aveva fatto che esaltare i miasmi provenienti dai fanghi: la decantazione e la disidratazione dei reflui aveva generato sciami di mosche che insieme alla puzza avevano trasformato il paese in un inferno. Sono iniziate così le proteste e il problema è arrivato subito sul tavolo del sindaco, neo eletto, Emanuele Cauli.

Nel giro di poco tempo si era costituito il Comitato Ambiente Planargia che ha cominciato a raccogliere firme contro l'impianto, fare riunioni e chiedere al sindaco di intervenire.

il 24 settembre una giovane rappresentante del comitato, Annalisa Zarelli, figlia di residenti che hanno le vigne di Malvasia proprio a due passi dall'impianto, chiusa dentro la sua Panda, aveva bloccato l'accesso dei camion in un terreno in cui la geco stava sversando fanghi. secondo la geco secondo il comitato. In quell'occasione la Zarelli aveva chiamato la Forestale per sollecitare verifiche: «Da un mese sversavano fanghi nei terreni attorno all'impianto, era l'unico modo per fermare lo scempio. La Geco ha chiamato i carabinieri per farmi sgomberare - aveva raccontato la Zarelli - ma almeno ho ottenuto qualcosa: hanno prelevato dei campioni e controllato i documenti dei Tir». Secondo la Geco invece era una regolare sperimentazione nell'ambito della messa a punto del concime.

La situazione era diventata incandescente e a Capodanno la tensione è culminata con l'incendio appiccato ai due generatori di corrente della Geco. Naturalmente il Comitato ha subito preso le distanze da quell'incendio, presumibilmente doloso. Di fatto i vigili del fuoco non avevano trovato tracce che potessero avvallare l'ipotesi di dolo, ma allo stesso tempo avevano affermato che era altamente improbabile l'autocombustione di due generatori così lontani uno dall'altro che hanno preso contemporaneamente fuoco a Capodanno.

Il comitato ha però cominciato a fare pressione sul sindaco chiedendogli di fare un'ordinanza di chiusura dell'impianto per tutelare la salute pubblica …se non quella di aver previsto una zona Pip, dedicata ad attività artigianali senza alcuna prescrizione a 158 metri dal centro abitato.

Ma sono scelte fatte da precedenti amministrazioni.

Il sindaco di Magomadas, Emanuele Cauli (Foto A.Raggio)
Il sindaco di Magomadas, Emanuele Cauli (Foto A.Raggio)
Il sindaco di Magomadas, Emanuele Cauli (Foto A.Raggio)

Una distanza che non era emersa in sede di conferenza di servizi, quando la Provincia aveva deciso di autorizzare l'impianto. In quel frangente il Comune (allora commissariato) aveva dato il nulla osta, fatte salve le tantissime prescrizioni dell'Arpas, che aveva detto un poco convinto, solo a condizione che tutte le sue raccomandazioni venissero rispettate. «È vero, le autorizzazioni ci sono, ma forse qualcosa è stato sottovalutato: un impianto di quelle dimensioni ha un impatto fortissimo a ridosso di un centro abitato, per di più a vocazione turistica - aggiunge il sindaco - Stiamo facendo il possibile per affrontare il problema e cercare di risolverlo, nel rispetto della legge».

Ma non solo. C'è un altro punto tanto contestato dal Comitato e dal presidente del Consorzio per la tutela della Malvasia Giovanni Porcu: «Quell'impianto insiste su un territorio tutelato con decreto del Presidente della Repubblica, nel quale, in base al Piano regionale dei rifiuti, a pagina 455, sulle zone Doc, Dop e Igp, non sono possibili impianti di quel tipo». Ma visto che, in allegato alla determina della Provincia, l'azienda aveva autocertificato di aver preso visione del Piano, l'autorizzazione è stata rilasciata lo stesso.

Il rappresentante legale, Leonardo Galleri (Foto A.Raggio)
Il rappresentante legale, Leonardo Galleri (Foto A.Raggio)
Il rappresentante legale, Leonardo Galleri (Foto A.Raggio)

Il 18 ottobre, l'Arpas aveva fatto un controllo per capire se l'azienda stesse rispettando tutte le prescrizioni fatte in sede di autorizzazione. La richiesta di verifica era stata sollecitata in seguito alle segnalazioni pervenute, tra settembre e ottobre, da parte di Comune, Provincia, Regione e Forestale. La relazione è firmata dai tecnici Alberto Zangirolami e Mario Graziano Lai, che, in un documento di 25 pagine, spiegano gli esiti di quella "ispezione ambientale ordinaria" su qualità dei fanghi, tenuta dei registri, controlli del processo di trasformazione, cartellonistica e tracciabilità del prodotto. La violazione più grave sembra quella relativa alla stabilizzazione dei fanghi in entrata. L'azienda ha sempre affermato di ricevere fanghi da reflui già stabilizzati e innocui (con tanto di certificazione da parte di Acquedotti pugliesi), cioè fanghi che passano attraverso un processo che dovrebbe eliminare tutti quei batteri patogeni e parassiti responsabili di eccessivi odori e mosche. L'Arpas riscontra invece 54 carichi di fanghi (da circa 35 tonnellate) «non accompagnati da idonee certificazioni in grado di dimostrarne l'avvenuta stabilizzazione». Un'altra violazione viene riscontrata sui registri di entrata e uscita dei reflui, ritenuti dai tecnici regionali incompleti, «per mancato rispetto della tempistica di registrazione di diversi carichi».

L'Arpas rileva inoltre una serie di discordanze tra il «peso dei carichi accettati dall'impianto e quelli in partenza». Anche i cosiddetti "controlli di processo" vengono contestati dai tecnici della Regione che non riscontrano «alcuna evidenza della misurazione giornaliera delle percentuali di umidità nelle vasche per il trattamento dei fanghi», oltre che l'«assenza totale di aree dedicate ai rifiuti inerti, della cartellonistica che dovrebbe descriverne i codici e la separazione tra le varie tipologie di rifiuto». E non esiste neppure, secondo l'Arpas, una «modalità operativa né una tempistica di trattamento» che garantisca uno stoccaggio corretto. Nelle ultime due pagine sono elencate le sanzioni previste per queste 6 violazioni: in alcuni casi l'arresto da un mese e mezzo a 6 mesi, oppure ammende fino a 13 mila euro. Dovrebbe essere la Provincia che (nel luglio dello scorso anno, dopo due travagliate conferenze di servizi) ha rilasciato l'autorizzazione, a vigilare sull'impianto e a prendere i provvedimenti previsti, in base alla gravità delle violazioni: dal semplice richiamo, alla sospensione dell'attività, alla revoca dell'autorizzazione. «Tutti questi problemi non sarebbero sorti se l'Arpas avesse dato subito un parere negativo all'impianto», aveva sbottato il commissario straordinario della Provincia di Oristano, Massimo Torrente. «Invece, nella seconda conferenza di servizi ha dato parere positivo, con mille prescrizioni. Tutti stanno cercando di sottrarsi alle loro responsabilità - continua - mettendo in mezzo la Provincia che non ha fatto altro che dare l'autorizzazione prendendo atto dei pareri di tutti e dei requisiti necessari. Anche il Comune ha le sue responsabilità quando ha dato il via libera a un impianto di quel tipo nella sua zona Pip, senza pensare che era così vicina al centro abitato».

La riunione del Comitato Ambiente Planargia (Foto A. Raggio)
La riunione del Comitato Ambiente Planargia (Foto A. Raggio)
La riunione del Comitato Ambiente Planargia (Foto A. Raggio)

«La Provincia sta comunque monitorando la situazione - assicura Torrente - e, a fronte di questi nuovi rilievi, farà quello che deve. Naturalmente questi sono compiti squisitamente tecnici di cui si occupano gli uffici, non la parte politica».

Intanto, il responsabile del settore ambiente, Luciano Casu, che ha seguito fino ad oggi tutte le pratiche, è andato in congedo pre-pensione e la patata bollente è passata alla nuova dirigente, Annapaola Jacuzzi. Nel corso della vicenda erano intervenuti anche gli assessori regionali all'Ambiente, Gianni Lampis e all'Agricoltura Gabriella Murgia «Abbiamo avviato le necessarie verifiche in attesa di ulteriori accertamenti che ci potranno offrire un quadro ancora più chiaro e preciso. La prudenza in questi casi è massima e la Regione è sempre pronta a intervenire, oltre che per garantire le migliori condizioni ambientali e di salute alle nostre comunità, per tutelare tutti i nostri prodotti agroalimentari, come la Malvasia, pregiato vino Doc apprezzato nel mondo».

Ma non è finita qui Su tutta la vicenda c'è anche un'inchiesta della Procura della Repubblica di Oristano che sta cercando di approfondire, non solo ipotesi di inquinamento ambientale ma anche eventuali azioni dolose nell'iter autorizzativo.

Insomma, la vicenda non sembra affatto essersi conclusa.
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