"Ero disperata. I medici non riuscivano neppure a intuire la causa delle mie sofferenze atroci. Dopo ottanta interventi chirurgici e due setticemie ho valutato concretamente la possibilità di farla finita".

Giuseppina Carreras ha quarantanove anni, due figli e un passato all'inferno. Negli ultimi trenta mesi ha domato la disperazione pescando quotidianamente dal pozzo della speranza. La nipotina che frequenta la prima elementare non lo sa ma ha avuto un ruolo fondamentale: "È stata lei a darmi la forza di non mollare".

I segni del dolore li ha incisi sull'addome: "Dal 2017 ho vissuto quasi sempre in ospedale, una parte del mio corpo è stata martoriata dai bisturi. Venti giorni fa il miracolo: nella mia pancia gli specialisti del policlinico universitario hanno trovato una clip d'acciaio dimenticata da chissà chi. A loro devo la vita".

Il primo intervento?

"Nel 2011, ospedale di San Gavino. Una cisti ovarica ha spinto i medici ad asportarmi l'utero. Da quel momento è iniziato il calvario, proseguito col ricovero al Sirai di Carbonia".

Il momento peggiore?

"La parte terribile di questa storia l'ho affrontata dal mese di giugno 2017. Nel basso addome è comparso un piccolo gonfiore che il giorno dopo aveva le dimensioni di un melone. Era viola, verde, come se dentro bollisse qualcosa".

La diagnosi?

"Al Brotzu mi dissero che poteva essere la puntura di un insetto esotico. Mi hanno prescritto quaranta sedute di camera iperbarica. Di tanto in tanto incidevano un punto per far uscire il pus, è andata avanti così da agosto ad ottobre. L'ultimo mese ho avuto un malore per strada, l'ambulanza del 118 mi ha portata dritta all'ospedale di San Gavino".

Cosa le hanno detto?

"Stessa trafila: incisioni, sala operatoria, drenaggio, febbre, brividi che mi scuotevano. Quando si sono stufati di cercare le cause mi hanno trasferita a Cagliari, nel reparto Malattie infettive del Santissima Trinità. Persone splendide, ma appena si è formato l'ascesso mi hanno dovuto trasferire in Chirurgia. Me la sono cavata con tre interventi chirurgici, setticemia e necrosi della ferita".

A chi ha chiesto aiuto?

"Cercavo soluzioni che mi facessero star meglio. Ho preso un appuntamento in una clinica privata di Decimomannu: centocinquanta euro per sentirmi dire che nulla potevano fare".

Quando ha scoperto la verità?

"Meno di un mese fa, al policlinico di Monserrato. Ero allo stremo, ho pregato i professori che avevo davanti di aiutarmi".

Com'è andata?

"Hanno deciso di farmi la colonscopia. Il liquido di contrasto ha trovato un varco imprevisto nell'intestino ed è uscito da una ferita sull'addome. Hanno capito la natura delle mie sofferenze".

L'ultima volta in sala operatoria?

"Il 19 dicembre. Hanno trovato la clip metallica dentro l'intestino: l'aveva bucato e le feci uscivano regolarmente con le conseguenze immaginabili. Per anni ho convissuto con la febbre, è schizzata anche a 42.3".

Oggi come sta?

"È ancora dura. Sono migliorata ma vivo nel terrore. Se dovesse ricapitarmi non so se avrei la forza di resistere".

Prova ancora dolore?

"Certo, anche quelli piccoli mi fanno temere il peggio. Però dopo anni vissuti nei letti degli ospedali, finiti i tempi in cui potevo solo sognare di compiere gesti banali come la doccia, sto provando a riprendermi la vita. Devo fare i conti con l'eredità di questo periodaccio".

Un esempio?

"Sono assuefatta agli antibiotici".

Ha contato gli interventi?

"Un'ottantina. Quindici con tutti i crismi, in sala operatoria con l'anestesia totale; il resto incisioni ambulatoriali senza un goccio di anestetico".

A nessuno è venuto in mente che ci fosse un corpo estraneo?

"Se qualcuno ha avuto l'illuminazione non me l'ha detto. È stata un'esperienza che mi ha piegato le gambe: per rimettermi in sesto ho ancora bisogno dell'aiuto di uno psicologo".

Mai pensato di non farcela?

"In molte occasioni volevo farla finita. L'ultima volta, a novembre, in piena setticemia. Devo ringraziare chi mi è stato vicino: senza la rete di protezione della mia famiglia non ce l'avrei fatta".

Cattolica?

"Sì, ma in questo momento ho difficoltà a dirmi credente".

I momenti peggiori?

"I medici ascoltavano i miei racconti e non credevano a una parola".

Quanto ha speso per curarsi?

"Molti soldi. Da quando sono stata male non ho potuto fare neppure piccoli lavoretti. Ho presentato la richiesta per l'indennità di accompagnamento".

Passerà alle carte bollate?

"Sono in contatto con il Tribunale del malato. Valuteremo assieme gli eventuali passi".

L'eredità di questo periodo?

"Pancia e anima mutilate. Mio marito e i miei figli hanno sofferto quanto me".

La sanità pubblica?

"Sono una persona tranquilla, non ho avuto problemi personali con medici e infermieri, anche se qualcuno di loro ha commesso un errore che mi è quasi costato la pelle".

Chi vuole ringraziare?

"Il mio caso è stato studiato dal professor Piergiorgio Calò e risolto in sala operatoria dall'équipe del professor Enrico Erdas. Sono viva grazie a loro".

Paolo Paolini

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