La pandemia da coronavirus ha messo in evidenza le difficoltà organizzative del nostro servizio sanitario regionale che si è visto costretto ad impiegare tutte le sue risorse ospedaliere quasi esclusivamente per pazienti che avevano contratto il virus.

A dire il vero simili difficoltà, seppure in modalità diverse, si sono riscontrate diffusamente in tutti i servizi sanitari regionali. Proprio da questo dobbiamo prendere spunto per cominciare a parlare di organizzazione delle cure ospedaliere ed abbandonare la stucchevole discussione sulla riforma sanitaria.

Partiamo da un problema reale: i trapianti di rene. Essi sono diventati talvolta un fatto di cronaca perché la loro esecuzione comporta, spesso, lo spostamento ad altra data di interventi programmati dal reparto di urologia del Brotzu. In Sardegna ci sono circa 1500 pazienti che effettuano l’emodialisi. Essa, come sanno tutti, è una terapia salva vita, i cui trattamenti si effettuano in media tre volte alla settimana e consentono una buona riabilitazione. Non è come avere i propri reni e proprio per questo fare il trapianto è una terapia che libera dalla dialisi e dà un nuovo equilibrio e vitalità a tutti gli organi. Quindi bisogna farne sempre di più. Ogni anno in Sardegna se ne effettuano circa 40.

C’è un risvolto che si prende in scarsa considerazione ma è fondamentale. Un paziente in emodialisi ha un costo complessivo di 50mila euro/anno. Ma col trapianto il costo complessivo delle cure, dopo il primo anno di trapianto, scende a 15mila euro/anno. Pertanto il servizio sanitario solo con i 40 trapianti di un anno risparmierà 600mila euro/anno che si aggiungeranno ai risparmi degli anni precedenti e successivi. Evidente che parte di questi risparmi va investito in assunzioni di medici ed infermieri nel progetto trapianto di rene per aumentarne il numero se possibile, ma anche per consentire che la normale attività chirurgica non sia ostacolata dall’esecuzione dei trapianti.

L’epidemia di coronavirus, poi, ci ha fatto riscoprire l’importanza delle terapie intensive. Il loro numero era insufficiente per il nostro servizio sanitario regionale. I ricoveri di elezione, quindi, riguardavano soprattutto pazienti con insufficienza respiratoria che avevano bisogno di essere ventilati meccanicamente. Dovremmo avere una indicazione al ricovero in terapia intensiva più vasta. Questi pazienti, infatti, possono avere molti organi contemporaneamente compromessi e in queste strutture devono essere concentrate le migliori esperienze e capacità per affrontare casi clinici complessi e gravi. I costi giornalieri di ricovero nelle terapie intensive sono ovviamente elevati, basti pensare che ciascun paziente è assistito da un infermiere. Dopo due settimane può succedere che le condizioni cliniche migliorino, il paziente non ha più bisogno di cure intensive, ma non può essere trasferito ancora in un reparto specialistico. Servirebbe una terapia semi intensiva dove un infermiere assiste due pazienti, magari non più connessi al respiratore e con costi giornalieri decisamente ridotti.

Come risulta evidente non servono nuove risorse per aprire una terapia semi intensiva di supporto. Serve avere un’idea di questi bisogni clinici e realizzarla. Nei grandi ospedali le terapie semi intensive sono un patrimonio acquisito di ogni struttura complessa per dare assistenza consona ai bisogni di ciascun paziente. Senza dimenticare che la mortalità post operatoria è maggiore di quella durante l’intervento per cui avere una terapia intensiva per il post operatorio migliorerebbe la prognosi generale dei pazienti operati. Ecco come si può migliorare l’organizzazione dei nostri ospedali senza aumentarne i costi.

Antonio Barracca
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