Non si può certamente dire che i cagliaritani dimentichino la loro storia. L'epidemia di peste che decimò la città fece nascere la "Festa di Sant'Efisio". Altri momenti storici sono, invece, ricordati attraverso modi di dire che fanno parte che hanno attraversato i secoli. Qualche esempio? "Sa fabrica 'e Sant'Anna", per citarne uno. In qualche modo, ha lo stesso significato della "tela di Penelope", indica cioè un'opera che non finisce. E, in effetti, la costruzione della chiesa di Stampace durò tantissimo tempo. Demolita, nel XVII secolo, la vecchia chiesa, in stile romanico pisano, si decise di costruire un tempo più capiente. Il progetto fu affidato a Giuseppe Viana, allievo di Benedetto Alfieri. La prima pietra fu piazzata il 27 maggio 1785. Da subito, i lavori andarono a rilento per mancanza di fondi. Soltanto nel 1817 si arrivò all'inaugurazione. Ma la chiesa era ancora tutt'altro che completa. Si dovette arrivare al XX secolo per vederla terminata: l'altare e l'apparato decorativo delle pareti vennero realizzati nel 1906 mentre nel 1937 fu sistemata la scalinata e, l'anno dopo, fu eretta la torre campanaria destra. Tutto finito? Neanche per idea. La chiesa poté essere frequentata per cinque anni ma, nel 1943, fu distrutta dai bombardamenti alleati. Nell'immediato Dopoguerra cominciò la ricostruzione che si concluse nel 1951. Centosessantasei anni per la costruzione de "Sa fabrica 'e Sant'Anna".

Tra i tipici modi di dire cagliaritani ce n'è anche un altro che ricorda un periodo particolarmente tragico, "su famini 'e s'annuu doxi" ("la fame dell'anno dodici"). Un momento tragico ma anche il ricordo dell'unica volta, forse, in cui il popolo cagliaritano decise di ribellarsi alle angherie dell'invasore di turno. La storia merita di essere raccontata. Nel 1812 ("s'annu doxi", cioè l'anno dodici) la Sardegna fu colpita da un'eccezionale siccità che provocò una devastante carestia. Non soltanto: in quell'anno si scatenò un'epidemia di vaiolo. La città era ridotta allo stremo. E, come se non bastasse, a peggiorare ulteriormente la situazione c'era il fatto che, proprio quell'anno, aveva cercato riparo in città il re Vittorio Emanuele I, fuggito dal Piemonte, invaso dai francesi. Ovviamente le derrate alimentari finivano nelle residenze del re e della sua corte.

La chiesa di Sant'Anna (foto Cocco)
La chiesa di Sant'Anna (foto Cocco)
La chiesa di Sant'Anna (foto Cocco)

Non soltanto: ai cagliaritani venivano imposte nuove tasse per mantenere nel lusso i regnanti. Davvero troppo anche per un popolo abituato a sopportare in silenzio. Così, finalmente, si accese la fiamma della rivolta. Un gruppo di congiurati cominciò a ritrovarsi a Palabanda, nella zona dove ora sorge l'Orto botanico, in un podere di proprietà dell'avvocato Salvatore Cadeddu, segretario dell'Università. Insieme a lui, i figli Gaetano e Luigi, gli avvocati Francesco Garau e Antonio Massa, il sacerdote Antonio Muroni, l'insegnante Giuseppe Zedda, il conciatore di pelli Raimondo Sorgia, il sarto Giovanni Putzolu, il pescatore Ignazio Fanni e il panettiere Giacomo Floris. Il 30 ottobre 1812 il gruppo sarebbe dovuto entrare dalle porte della Marina (lasciate aperte da soldati di guardia corrotti) e raggiungere Castello per arrestare il comandante militare della città Giacomo Pes di Villamarina e cacciare via i cortigiani. Ma, forse per una delazione, certamente per mancanza di coraggio nel momento decisivo (Putzolu non sparò su Villamarina pur avendone avuto la possibilità), la congiura fallì. E, naturalmente, i Savoia decisero di trasformare quell'episodio in un monito per tutti i cagliaritani: la rivolta fu punita con il sangue. Putzolu, Sorgia e Salvatore Cadeddu furono arrestati e impiccati, Cadeddu, Fanni, Zedda e Garau che, fortunatamente, era riusciti a fuggire, furono condannati in contumacia alla stessa pena; Floris e Massa se la "cavarono", con l'ergastolo. Un episodio di vita cagliaritana che meriterebbe di essere ricordato in maniera più degna di un semplice modo di dire. Invece, mentre la toponomastica continua a rendere omaggio ai Savoia, quei martiri della libertà vengono celebrati soltanto da una lapide sistemata (tardivamente, va detto) all'interno dell'Orto botanico.
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