«Adesso, soprattutto adesso dobbiamo stare estremamente attenti».

Perché?

«Perché, lo ha ricordato anche l'Oms, il rischio di una seconda ondata è più che possibile. Dai primi studi fatti parrebbe che in realtà le persone entrate in contatto col virus non siano poi così tante. Io speravo che fosse almeno il 40, 50% della popolazione, in quel modo sarebbe stato molto più facile procedere velocemente all'immunità di gregge, anche se non è chiaro nemmeno questo aspetto, cioè quanto si rimanga immuni dopo la malattia...».

E quindi?

«Beh, se è vero che soltanto il 10,15% della popolazione è entrato in contatto col virus, è evidentissimo che, se adesso non si è prudenti, ci può essere un'onda di richiamo, una sorta di tsunami, che può dimostrarsi anche più devastante di ciò che abbiamo già visto».

Saverio Bellizzi, 43 anni, sassarese, è un epidemiologo che, in missione per l'Organizzazione mondiale della sanità, Medici Senza Frontiere e diverse Ong italiane, ha lavorato nelle trincee più povere del mondo, dall'Africa al Centro America al Medio Oriente. E' uno dei medici che tra il 2014 e il 2015 erano in Guinea, Sierra Leone e Liberia durante la spaventosa epidemia di Ebola. Con i colleghi finì sulla copertina di Time che proclamò gli operatori "Persone dell'anno 2014".

Il rischio di morte per i malati di Ebola è altissimo, ma forse quel virus è meno subdolo di Sars Cov-2...

«E così, intanto perché mentre Ebola la conosciamo dagli anni '70 e sappiamo come affrontarla, di questo virus conosciamo ancora poco: la ricerca sta andando avanti in maniera impressionante ma molte cose sono da chiarire. Ebola, inoltre, non si trasmette per via aerea e quindi il contagio è molto più difficile rispetto al Covid che è invece una malattia respiratoria, come le influenze stagionali, e quindi facilmente trasmissibile. E' proprio l'estrema contagiosità che va tenuta in conto perché sì, Covid è una malattia assai meno mortale di Ebola, e anche della Sars e della Mers, ma è capace di infettare molte più persone quindi, seppure con una minore percentuale di mortalità, alla fine il numero assoluto sarà molto maggiore se non si pongono limiti importanti».

Il caldo ci può aiutare ad allentare i divieti?

«Come tutti gli epidemiologi spero ci sia una certa sensibilità del virus al calore. Ma è impossibile vederlo in questo momento, anche perché l'accuratezza dei dati lascia il tempo che trova».

Perché?

«Perché la percentuale dei casi è sicuramente molto, molto maggiore rispetto al numero dei tamponi fatti, per cui un'idea chiara di ciò che succede non c'è. Bisognerà aspettare almeno un altro mese per capire se le temperature hanno effetti».

In Sardegna sono stati fatti finora poco più di 22mila tamponi. Bisognava farne di più?

«Sì, molti di più. Capisco le difficoltà logistiche, presumo che non siano stati fatti perché non c'erano e perché mancavano i reagenti, non conosco i dettagli. Però l'Oms già dal 30 gennaio ha detto che bisognava testare, testare, testare. Perché la Germania è più avanti? Perché hanno fatto centinaia di migliaia di tamponi alla settimana. In Sardegna bisogna farne di più per isolare immediatamente i possibili portatori del virus, per scremare, per avere una mappatura e organizzarsi ancora meglio nel trattamento».

Intanto sta per partire lo screening a campione coi test del sangue per capire quanto ha circolato il virus.

«Giusto. E' fondamentale per mappare come è diffuso, per capire chi è più o meno forte, dove concentrare capacità e risorse, dove aspettarsi possibili ondate di ritorno. Purtroppo non ci sono test sensibilissimi, però bisogna partire in un modo o nell'altro».

Per la prossima stagione turistica la Sardegna punterà sull'immagine di regione Covid-free.

«Io credo sia molto prematuro fare affermazioni di questo genere e aspetterei qualche settimana. Certo, le cose stanno andando bene perché l'accesso agli ospedali e alle rianimazioni è molto diminuito, e non c'è mai stato un grosso picco. Ma è anche vero che, considerato che i tamponi fatti sono pochi, non si ha un'idea chiara di ciò che realmente sta avvenendo».

Si può venire incontro da un lato all'esigenza dei cittadini di tornare a una vita per quanto possibile normale, e dall'altro alla salvaguardia della salute pubblica?

«Guardi, io sono positivamente colpito dai risultati della Sardegna perché all'inizio dell'epidemia la percentuale di operatori sanitari contagiati era la più alta d'Italia e questo mi ha allarmato. Nonostante i presupposti preoccupanti, però, la situazione procede bene grazie al comportamento dei cittadini, degli amministratori locali che hanno fatto valere le restrizioni, degli stessi medici e di tutti gli operatori sanitari».

Quindi come dobbiamo affrontare l'allentamento dei vincoli?

«Con responsabilità e prudenza. Per il resto, le regole d'igiene sono le stesse da quando l'epidemiologia è nata cent'anni fa: distanziamento, mascherina, lavarsi le mani col sapone».

Piera Serusi

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