Una fiala costa meno di dieci euro e il suo utilizzo pare sia in grado di più che dimezzare il rischio di morte nei pazienti colpiti da polmonite bilaterale interstiziale causata da Covid-19. E non stiamo parlando di farmaci sperimentali, bensì di un normale cortisonico, il metilprednisolone, da tempo in commercio e ampiamente utilizzato ovunque nel mondo per la cura delle infiammazioni acute.

NUOVE ARMI La scoperta che alimenta nuove speranze in queste ore tragiche arriva da uno studio pubblicato due giorni fa sulla rivista scientifica Jama, una delle più prestigiose a livello internazionale, da un'équipe di ricercatori cinesi che ha analizzato le cartelle cliniche di 201 pazienti ricoverati all'ospedale di Wuhan Jinyintan tra il 25 dicembre e il 26 gennaio, tutti affetti da sindrome di distress respiratorio acuto (ARDS) causata dal Sars-Cov2. Ricerca che si è conclusa il 13 febbraio dando risultati sorprendenti. In particolare, dai dati emersi, i ricercatori cinesi avrebbero dimostrato che l'utilizzo di una terapia che comprenda il cortisone abbatte il rischio di morte del paziente del 62 per cento.

Aldo Caddori (Ledda)
Aldo Caddori (Ledda)
Aldo Caddori (Ledda)

GLI SPECIALISTI SARDI Abbiamo chiesto ad Antonio Macciò, oncologo del Businco e fra i più illustri ricercatori sardi, e ad Aldo Caddori, primario di medicina generale all'ospedale Santissima Trinità da giorni in prima linea contro l'emergenza coronavirus insieme ad anestesisti, medici, infermieri e tutto il personale, di spiegarci le implicazioni di questa scoperta. «In certe situazioni può essere un salvavita - conferma Caddori -, anche se le manifestazioni d'infezione da Sars Cov-2 non sono tutte uguali. Si passa dal paziente asintomatico che può essere individuato solo con un test specifico, al paucis sintomatico che ha sintomi simil influenzali sino a quadri di vera e propria polmonite interstiziale e insufficienza respiratoria che può essere fatale. Ci sono delle fasi di questa malattia che noi conosciamo perché le abbiamo viste in altre situazioni, come per l'epidemia di H1N1: il sistema di difesa in questi casi è talmente vivace che crea dei danni e quando si verifica questa situazione allora trova spazio il cortisone che è un antifiammatorio steroideo mentre sono da evitare i FANS, che invece incrementano la mortalità. All'interno di questa situazione cerchiamo di capire in che fase è il paziente per trovare la soluzione migliore, in Cina hanno provato 35 protocolli terapeutici e ciò vuol dire che non siamo ancora al protocollo risolutivo. Di certo il cortisone in certe situazioni può essere decisivo per salvare la vita dei pazienti gravi di questa epidemia». Macciò concorda: «È un risultato molto importante - dice -, perché dimostra l'efficacia dei cortisonici nel trattamento delle polmoniti da Covid-19. In questo giorni si è parlato molto del farmaco per la cura dell'artrite reumatoide, il Tocilizumab, che sta dando risultati soddisfacenti: ebbene il meccanismo è lo stesso, l'infiammazione principalmente orchestrata dall'interleuchina 6, ormai scollegata dai meccanismi di "reazione selettiva" e priva di controllo e inibizione, può aggravare le condizioni cliniche del paziente e dunque favorirne la morte. Interferire su questi eventi può sicuramente aiutare la gestione della malattia sino ad evitare i danni più gravi. Inoltre, come sottolineato da una lettera pubblicata su Lancet il 13 marzo, le forme severe di infezione da Covid-19 sono associate ad una tempesta citochinica (quindi non solo IL-6) caratterizzata da una condizione di "iperinfiammazione" con aumentati livelli di diversi mediatori della stessa. In tale condizione utilizzare farmaci immunosoppressori, quali il cortisone, che agiscono su tutta la cascata delle citochine infiammatorie e non combattere contro una sola citochine (IL-6) sarebbe di maggior beneficio. Quindi combattere l'infiammazione aspecifica, quando la resistenza specifica ha fallito, può avere un significato clinico di grande utilità». Rispetto al farmaco per l'artrite sperimentato per la prima volta sui pazienti infettati dal coronavirus al Cotugno di Napoli e che tante aziende sanitarie ora stanno ordinando in grande quantità, c'è però una differenza non da poco: che il cortisone costa enormemente di meno ed è facilmente reperibile in qualunque ospedale e farmacia.

IN CINA PAZIENTI PIU' GIOVANI Tornando alla ricerca cinese, un dato che balza agli occhi è l'età relativamente giovane dei pazienti colpiti da polmoniti da Covid-19, che pare confermare il perché in Italia gli indici di mortalità siano nettamente più alti che in qualunque altra parte del mondo. L'età media dei ricoverati a all'ospedale di Wuhan Jinyintan era di 51 anni (intervallo più frequente 43-60 anni) e 128 (63,7%) erano uomini. Ottantaquattro pazienti (41,8%) hanno sviluppato ARDS e di questi 84 pazienti, 44 (52,4%) sono deceduti. In coloro che hanno sviluppato ARDS, rispetto a quelli che non lo hanno fatto, un numero maggiore di pazienti presentava dispnea (59,5%) e il 25,6% presentava comorbidità come ipertensione e diabete. Confermato inoltre, ma nessuno aveva dubbi, che il rischio è più alto quanto è maggiore l'età: «Nell'analisi della regressione di Cox bivariata - spiegano i ricercatori cinesi -, i fattori di rischio associati allo sviluppo di ARDS e alla progressione dall'ARDS alla morte includevano l'età avanzata».

Antonio Macciò (Ledda)
Antonio Macciò (Ledda)
Antonio Macciò (Ledda)

PERCHE' IN ITALIA UCCIDE DI PIU' Non a caso è proprio l'età media molto alta della nostra popolazione che spiegherebbe, secondo molte analisi, il fatto che in Italia Covid-19 uccide più del doppio rispetto agli altri Paesi maggiormente colpiti, come la Cina. Ma non solo, stando a due diversi studi, uno portato avanti da un team di ricercatori di Oxford e l'altro da due statistici tedeschi, a influire sarebbe anche il modello della famiglia italiana, dove l'interazione fra giovani e anziani è costante e molto intensa. Il ruolo dei nonni, in particolare, che spesso vengono demandati alla cura dei nipoti che vanno a prendere a scuola e tengono in casa mentre i genitori lavorano, sarebbe un fattore determinante nella diffusione del coronavirus fra le fasce di popolazione più a rischio, cioè gli over 70.
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