Nei giorni scorsi, in una lunga intervista giornalistica, il nuovo ministro per il Sud, Giuseppe Provenzano, ha dichiarato che senza una ripresa industriale non ci potrà essere possibilità di sviluppo per le regioni meridionali e insulari.

"Agricoltura, turismo e cultura - ha precisato - hanno grandi possibilità inespresse, e magari pure l'allevamento delle cozze. Ma un'area di venti milioni di abitanti senza fabbriche non ha futuro. Possiamo discutere di cosa e come produrre, ma il piano per queste regioni dovrà puntare a reindustrializzarle nel senso dell'innovazione e della sostenibilità ambientale. Non a vagheggiare un luogo dove passare solo le vacanze o trascorrere il tempo della pensione".

Il ministro, un economista che proviene dalla dirigenza dello Svimez, il prestigioso centro studi per lo sviluppo del Mezzogiorno, ha anche aggiunto che, per il risveglio dell'economia meridionale, occorra predisporre degli efficaci strumenti finanziari per promuoverne e sostenerne il rilancio produttivo.

Si tratta, pur nell'evidente sintesi, di un programma operativo assai efficace e stimolante.

A cui occorrerebbe dare una chiave di lettura utile anche per il risveglio economico della nostra regione. Perché l'idea di un'Isola delle vacanze e delle attività campestri da mitiche georgiche, pur affascinante sul piano cultural-emotivo, non risolverebbe i nostri guai della penalizzante dipendenza economica, della preoccupante inoccupazione strutturale e dell'avvilente emorragia migratoria giovanile.

Ci sono dei dati che aiutano a comprendere quest'affermazione. Tra le attività agricole e quelle dell'ospitalità turistica, la partecipazione al Pil regionale è oggi stimata attorno al 12-13 per cento, con un'occupazione che riguarderebbe, con i suoi circa 110 mila addetti, il 15-16 per cento della forza lavoro totale.

Ne risulterebbe quindi che ogni punto percentuale di Pil possa valere, più o meno, 260-290 posti di lavoro nei due settori. Da qui l'osservazione che anche l'acquisizione di nuovi 4 o 5 punti percentuali - non impossibile teoricamente ma assai improbabile nella realtà - non risolverebbe in alcun modo i problemi di una disoccupazione a due cifre. Ha quindi ragione Provenzano ad affermare che senza porre in atto una nuova industrializzazione, per regioni come la nostra non s'intravveda un futuro possibile. Ed è poi questo l'indirizzo che andrebbe sostenuto e supportato da una politica che intenda ritrovare autorevolezza e capacità realizzatrici.

D'altra parte, anche i buoni proponimenti del ministro Provenzano parrebbero isterilirsi di fronte alla fragilità ed alle ambiguità dell'attuale governo Conte, mentre qui in Sardegna sembra che si debba fare i conti con una Giunta sempre più definibile come quella degli annunci e non dei fatti concreti. Certo, ci si augura fermamente di sbagliare e di vedere risolti, con decisioni chiare e non “salvo intese”, i tanti nodi e vincoli che frenano l'economia ed allontanano la ripresa. A Roma come a Cagliari. Dato che a parlare d'industrie qui da noi, come dice qualcuno, vengono “is callenturas”.

Si prenda, ad esempio, il problema energetico che è centrale per ogni forma d'industrializzazione: si è ormai a ridosso della decarbonizzazione, ma si continua a tergiversare sulla metanizzazione (sì o no), sull'elettrodotto transtirrenico (no o sì), sulle fonti rinnovabili (sì o no) ed ancora se si debba chiedere, o meno, una proroga al 2030. Che sia questa una buona prassi politica parrebbe assai dubbio, anche perché l'indecisione e l'incertezza sono sintomi chiari, per quel che consta, di un malgovernare.

Né diversamente accade nel settore lattiero-caseario, dove le superficialità e le improntitudini hanno avuto partita vinta sull'arcifamosa e malpancista “quota 1,00 euro”. Si è andati avanti con l'allestimento di numerosi ed inutili tavoli di discussione, di norme approvate e poi subito dopo disapprovate dagli stessi, oltre che di continui contrasti sulla validità delle rappresentanze, nella presunzione che sia possibile produrre dei formaggi in tipologie, in quantità ed a prezzi inconciliabili con la domanda del mercato.

A chi scrive pare quindi di poter affermare che non è solo la politica industriale a far difetto nelle azioni dei nostri governi, dato che il fatto parrebbe ancor più preoccupante: mancherebbe infatti proprio un'appropriata cultura industriale.

PAOLO FADDA

STORICO E SCRITTORE
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