A Istanbul, nei giorni scorsi, durante il 14° Congresso mondiale di Medicina Perinatale, Giovanni Monni, direttore della Ginecologia del Microcitemico di Cagliari è stato rieletto vice presidente della Wapm (World Association of Perinatal Medicine). Il board è composto da 11 membri tra ginecologi, neonatologi e pediatri, con rappresentanti di Italia, Turchia, Russia, Croazia, Germania, Uruguay, Bosnia, Thailandia, Indonesia, Nigeria e Messico. «Nel mondo ogni anno 585mila donne muiono di parto», spiega Monni, «e 8 milioni di bambini muoiono nel primo anno di vita. Il nostro scopo è ridurre questi numeri, e l'informazione e la conoscenza sono essenziali».

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«Il nostro ospedale dovrebbe godere di grande attenzione e risorse, invece lavoriamo nell'indifferenza quasi totale della politica», dice Giovanni Monni, primario del reparto di Ginecologia e Ostetricia del Microcitemico.

Come vede l'accorpamento al Policlinico previsto dalla nuova riforma della Sanità?

«Il Microcitemico, centro di rilevanza regionale e nazionale, dovrebbe avere potenzialità che ci sono state negate. Ha visto le condizioni di questo reparto?».

Ho visto un centinaio di donne in una sala d'attesa piccola e scomoda e tante altre nell'andito.

«Sono sette anni che stanno decidendo di fare una ristrutturazione e darci anche il primo piano, dove c'è una sala operatoria mai aperta e abbandonata da dieci anni. Però siamo sempre qui, costretti a vivere in spazi del tutto inadeguati».

La rettrice ha detto che l'accorpamento porterà miglioramenti per tutti.

«Lei fa gli interessi dell'ateneo, non quelli dei pazienti. Siamo stati trasferiti dall'Ats al Brotzu, e pian piano stiamo entrando a regime tra mille problemi, e adesso dobbiamo cambiare di nuovo per salvare l'Università? Mi sembra un'assurdità. Noi curiamo malattie croniche e numerose patologie genetiche fetali e pediatriche, dovremmo essere un istituto scientifico indipendente, al massimo stare insieme all'Oncologico, con il quale già portiamo avanti progetti regionali fondamentali, come la crioconservazione degli ovociti e degli spermatozoi in pazienti tumorali che devono fare la chemioterapia, che saranno utilizzati dopo la guarigione per una gravidanza».

I numeri del suo reparto.

«Siamo una trentina, tra medici, biologi, ostetriche e infermieri, di cui il 40% è precario da vent'anni, molti pagati 800/1000 euro al mese con fondi che riesco ad avere dal ministero, dall'Europa, dalle organizzazioni scientifiche mondiali, dalla Fondazione di Sardegna. Con queste risorse riesco a comprare strumentazioni e mandare avanti il reparto e la ricerca, grazie allo spirito di abnegazione di tutti».

Gli interventi?

«Eseguiamo mille fecondazioni assistite all'anno, con quello di Reggio Emilia siamo il più grande centro pubblico italiano per la procreazione medicalmente assistita, e grazie a una sentenza del Tribunale di Cagliari da diversi anni eseguiamo la diagnosi genetica pre-impianto, evitando così alle donne la scelta dell'interruzione terapeutica della gravidanza. Abbiamo una delle più vaste casistiche mondiali per diagnosi prenatale invasiva. Vediamo circa 7000 gravide all'anno, in sostanza la maggioranza delle donne incinte dell'Isola».

E allo stesso tempo siete al centro del mondo.

«Facciamo parte di tante associazioni scientifiche internazionali, a stretto contatto con l'Oms, l'Onu, l'Unicef. Qui da noi vengono ginecologi americani, indiani e di altre nazionalità a imparare le tecniche di medicina fetale e l'ecografia. Siamo chiamati a competere, purtroppo in condizioni disastrate. Ripeto, abbiamo la più alta casistica al mondo per la diagnosi prenatale invasiva per malattie come la talassemia, grazie al lavoro fatto da professor Cao quarant'anni fa. Sono cose che dovrebbero essere tenute in alta considerazione. Invece politica e burocrazia ci ostacolano, la ricerca degli altri va avanti, e tra pochi anni i giganti asiatici ci surclasseranno. Noi rischiamo di scomparire».

E la natalità continua a calare.

«Sì, nel 2018 in Sardegna sono nati circa 9000 bambini, erano 13mila cinque anni fa. La situazione economica influisce ovviamente, ma sono convinto che le donne vogliano prima realizzarsi, studiare, trovare un lavoro, sistemarsi. Poi pensano a riprodursi».

Dunque è un fatto culturale.

«Sì, la donna sarda è la più "anziana" al parto, intorno ai 34 anni. Negli Stati Uniti adesso c'è un'inversione di tendenza, a 23/24 anni si fa il primo figlio, si cerca un'occupazione, lì è facile da trovare, si mette su casa, e poi magari si fa anche il secondo figlio. Tornando a noi, a 40 anni le probabilità di restare incinte sono basse, e allora si ricorre alla procreazione assistita».

Fino a che età è consentita?

«In molte regioni fino a 43 anni, in Sardegna non c'è un limite».

Significa che la fate anche a donne più grandi?

«No, quelle fanno l'eterologa, cioè vengono impiantate uova di donne giovani. Però qui non è autorizzata».

Non è autorizzata?

«No, la precedente Giunta regionale, nel 2014, l'aveva promessa. Stiamo ancora aspettando».

E le sarde vanno in Spagna, dove è legale.

«Già. La precedente Giunta ha anche deciso di finanziare ogni donna che va all'estero con 3500 euro, più viaggio e soggiorno. Hanno stanziato 350 mila euro all'anno, più i fondi per stare fuori il tempo necessario».

La fanno in tante?

«Solo io ne vedo due alla settimana che chiedono il rimborso. Con tutti quei soldi non solo l'avremmo potuta fare qui, ma avremmo anche ristrutturato il nostro ospedale e stabilizzato i precari».

Cosa pensa del fine vita? Una legge è necessaria?

«Io rispetto la scelta delle persone, sono per la libertà e l'autodeterminazione, però ci dev'essere una corretta informazione da parte dei medici. La mancanza di leggi crea disparità tra poveri e ricchi, e non posso accettare che una persona sia svantaggiata a causa della mancanza di soldi. Uno di Milano può andare in Svizzera in treno, noi abbiamo tante difficoltà a spostarci».

Cristina Cossu

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