Non so nuotare. Ma so annotare sull'inchiostro. Quanto basta per tenermi a galla con la penna stilografica lungo il periplo dell'isola. Scrivo dal molo di Tavolara in una giornata d'immensi scorci. L'isola Molara imperiosa. Coppie di gabbiani corsi a pelo d'acqua. Velieri all'ancora sulla rada lisa.

Terra mia non riconosco la tua indole dispersa. Sembri un avamposto d'invincibile bellezza. Sottoposto alle angherie di rapaci prezzolati. Eserciti di vacanzieri, inviati con ogni mezzo, a espiare i vizi esecrabili della società troppo ignorante per rispettare l'equilibrio delicato di un ecosistema fragile. Invasa, vituperata, abusata. Sconfessata alla memoria come una terra appena emersa dalle acque terse. La lunga estate di Mont'e Prama - una delle colpe occipitali di una classe "eletta", doppiamente bieca e cinica- sarà ricordata per due pesi e due misure di là di ciò che riterremmo l'Occidente civile. I sentimenti si perdono come i trasporti obsoleti. Bruciano come gli stazzi offerti alla perizia di piromani chirurgici. Deflagrano come gli ordigni che disseminano tormentosi dubbi sulla fine prematura di generazioni ignare.

Si muore per tentativi infruttuosi di guarigione politica. Tasto il terreno e non sento il polso. Ormai viviamo come reduci, rannicchiati nei paesi spopolati. Piegati alla propaganda demografica che miete vittime con tassi allucinanti. Costretti a esibire il voto infuocato prima di tornare nell'anonimato. Sotterrati come i giganti. Declassati a eroi dell'umido e del buio. Occultati alla storia. Costretti a ripetere a memoria una litania melensa.

L'aria densa di quest'estate rovente porta alla mente scenari apocalittici. I nostri antenati Shardana, la cui epopea è ben più limpida di qualsiasi maldestro imbonitore impegnato a celebrare la storiografia ufficiale, non sarebbero scesi a patti. A costo di stare arroccati nelle Barbagie del carattere orgoglioso.

Mi dolgo dell'abbandono conclamato. Vorrei che i teatri del Sinis diventassero la piazza della ribalta annunciata. Mi piacerebbe una bell'aria di rivolta popolare. Sulle ali in transito a Fenosu, reso finalmente operativo per fare buon viso alle meraviglie delle Colonne d'ercole alle porte di Cabras. Centroetnica. Poetica. Concreta. Invece facciamo la fine di quei teatri romani, ove s'intratteneva il pubblico col sangue dei leoni, salvo tornare circoscritti dall'erba e dall'incuria.

Vada detto a ogni buon penitente: la condizione permanente di servitù militare - imposta da decreti mai ridimensionati - è il vincolo oggettivo che limita qualsiasi sviluppo consapevole. Sul nascere. Il tributo bellico pagato all'Occidente ci danneggia come - 61 per cento del totale nazionale - nessun'altra regione d'Europa. La situazione deficitaria dei servizi, dei trasporti, dei luoghi di interesse storico, fa il paio con l'abbandono - altrettanto clamoroso - di tutti gli arenili dove orde di maleducati compiono - impuniti - qualsiasi nefandezza. Compresa la mondezza abbandonata negli anfratti. Il paragone con le Hawaii si spreca. Specie questi giorni di rivolta nell'arcipelago americano. Il popolo isolano opposto al progetto dell'ennesimo apparato militare, ubicato sulle spoglie del vulcano sacro Mauna Kea. Il mastodontico telescopio denominato TMT. Smettiamo di guardare altrove portando prove al nostro senso umanitario ipocrita. Siamo il popolo dei mozziconi nella sabbia che augura la gabbia all'atteggiamento autarchico. La Sardegna è in guerra. Dal 1956.

ANDREA MEREU

OPERATORE CULTURALE A LONDRA
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