Todo cambia, dunque, e si guarda all'Europa. C'è un politico all'economia, perché la trattativa più delicata che ci attende è quella con Bruxelles. Con questo governo si cambia perché, in primo luogo, c'è davvero un segnale di discontinuità. Se si prova a pesare i nuovi rapporti di forza dentro l'esecutivo, se si vuole provare a capire che segno e che colore hanno la squadra che si presenta alle Camere (oltre al giallorosso delle forze che lo compongono), questa è la prima caratteristica della creatura che ha visto ieri la luce, dopo una complessissima trattativa.

Giuseppe Conte è rimasto fermo al proprio posto, ma per paradosso - proprio per questo motivo - intorno a lui quasi tutto il paesaggio è cambiato. Restano (o tornano) i due capodelegazione, Luigi Di Maio e Dario Franceschini, restano i nomi pesanti (ad esempio Alfonso Bonafede), ma poi ci sono moltissimi volti nuovi. Sicuramente è proprio questo il primo segnale che invocava Nicola Zingaretti: il Conte bis è molto diverso dal Conte uno, non solo perché mancano, ovviamente, i ministri della Lega. Ma anche, e soprattutto, perché sono profondamente cambiate le squadre del Movimento Cinquestelle e del Pd.

Sorprende, più di tutto il resto, la radicalità del cambio operato da Di Maio: cinque ministri sono andati a casa, senza colpo ferire (e meno male che nel saluto alla squadra il capo politico pentastellato aveva detto: «Avete governato bene, sarete riconfermati»). In secondo luogo è un governo sostanzialmente paritetico, negli equilibri, fra le due principali forze che lo compongono.

Ventuno ministri, dieci del Movimento Cinquestelle, nove del Pd, uno di Leu. Più un ministro tecnico, l'ex prefetto di Milano Lamorgese, agli Interni. Non lo ammetterà nessuno, ma questa presenza è il segno del Quirinale nel luogo strategico della più alta garanzia istituzionale (dopo i tanti conflitti della stagione salviniana).

Tuttavia, dopo questo salto di innovazione, c'è un altro elemento che salta all'occhio. Stavolta, sia nel Pd che nel Movimento pesano le diverse correnti interne: su tutte quella renziana che fa cappotto e conquista ben tre ministeri (Guerini, Bellanova e Bonetti), ma anche quella di Roberto Fico. Il che non è contraddittorio con quello che abbiamo già spiegato, ma rappresenta una scelta che ha una spiegazione molto semplice: questa presenza è come una polizza di assicurazione per la nuova maggioranza in Senato (dove i numeri sono stretti). È un modo per dire: ci siete dentro tutti, non facciamo scherzi. La novità più forte è senza dubbio quella di Roberto Gualtieri, un eurodeputato, storico di formazione, all'Economia. Sulla poltrona più delicata ci va un quadro politico relativamente giovane (è un cinquantenne). Ma Gualtieri è un uomo con una formazione antica, uno zingarettiano che ha fatto in tempo a studiare a Frattocchie, visto che ha mosso i primi passi con il vecchio Pci. È un parlamentare che può contare sull'amicizia di Mario Draghi e che ieri ha incassato - nientemeno - la fiducia della direttrice del fondo monetario Cristine Lagarde: un fatto clamoroso, visto che quelle parole di augurio per una sua investitura venivano pronunciate mentre lui non era stato ancora nominato.

Il cuore della partita è tutto qui: la nomina di Gualtieri è un modo per dare due messaggi. Il primo è che l'Italia si mette in caccia dei miliardi (almeno dieci) che servono per il vero provvedimento-bandiera di questo governo, il taglio del cuneo fiscale. Il secondo è che questo governo mette in campo un uomo che da sei anni lavora in Europa, dentro le istituzioni. Non è un governo di "elevatissimi", di saggi, di nomi che fanno tremare le vene dei polsi. Non è un governo di veterani. Ma ci sono sette donne, tanti giovani affermati e stimati (ad esempio il ministro per il Mezzogiorno Provenzano, e quello dell'Istruzione Fioramonti). Se fosse una macchina della tradizione italiana si potrebbe dire che è come una Fiat Punto: zero lussi, spartana negli arredi, solida, ma costruita per andare lontano. E per non lasciarti in mezzo alla strada durante il viaggio più difficile: la prossima manovra.

Luca Telese
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