C'è da domandarsi cosa occorra fare per risvegliare e per rimettere in moto qui in Sardegna le attività d'industria da ormai troppo tempo avvolte da un lungo e pesante sonno. E come riuscire a ridare nuove motivazioni e concrete occasioni di riscossa ad un'imprenditoria locale avvilita e depressa per via delle troppe difficoltà incontrate e delle frequenti emarginazioni subite per via di veti e dinieghi, non ultimi quelli della politica.

Da troppo tempo, infatti, nell'Isola sono più le chiusure che le aperture di fabbriche.

Nel manifatturiero, ad esempio, non è rimasto nient'altro che qualcosa nell'agroalimentare, dal caseario al conserviero, mentre non si producono più bottiglie in vetro, batterie d'auto, calze e maglierie, ceramiche e quant'altro era un tempo nel nostro catalogo industriale. Il segnale più preoccupante è dato proprio dalla caduta del nostro fatturato: fatto eguale a 100 il dato del 1999, oggi si arriva a stento ad un valore di appena 55, con una perdita di oltre 50mila posti di lavoro.

Il primo segnale negativo è dato dalla sottocapitalizzazione delle nostre imprese e, conseguentemente, dalla loro pesante dipendenza dai crediti bancari. Infatti, contro un dato medio nazionale che indica in due terzi il rapporto fra capitale a debito e capitale proprio, nel caso sardo quel rapporto peggiora fino ai quattro quinti, proprio a causa della scarsa redditività delle loro gestioni.

Le cause a ben vedere sono da ricercarsi sia all'interno che all'esterno. Se, infatti, il fattore dell'insularità rappresenta un'indiscutibile diseconomia fisiologica dettata dalla geografia, le debolezze interne sono imputabili alle negatività riscontrabili nei mediocri indici di produttività e nell'assenza di investimenti innovativi.

Secondo alcuni analisti la redditività media delle imprese industriali isolane si stima essere pari ad un 20-25 per cento in meno delle consorelle continentali. Ragion per cui qui da noi il capitale aziendale tende più a consumarsi che a moltiplicarsi, come vorrebbero invece le buone prassi delle attività d'impresa.

Fin da tempi lontani, le modeste capacità d'accumulazione capitalistica sono state il problema centrale del nostro sistema imprenditoriale. L'aveva sostenuto fin da metà '800 il senatore Giuseppe Musio, rilevando come ci fosse nell'isola una penuria proprio di quella semente (quel capitale che chiamerà "il seme della ricchezza") necessaria per ottenere nuova e maggiore ricchezza.

Da allora, molto non è cambiato, dato che di quel benefico "seme" dalle nostre parti c'è sempre un'evidente scarsità. Ed è proprio su questo versante che occorrerebbe intervenire, con adeguati strumenti di politica economica. Forse varrebbe rifarsi all'esperienza antica dei Monti granatici (istituiti dal governo nel XVIII secolo per prestare ai contadini il grano per la semina ed ottenere così maggiori raccolti), replicando anche per l'industria d'oggi quel sostegno.

C'è dunque da dover richiamare la politica, ad iniziare da quella regionale, ad intervenire per ridare vitalità ad un settore in forte declino e che è causa, non ultima, della nostra pesante disoccupazione.

Paolo Fadda

(Storico e scrittore)
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