La sua fortuna è stata trovare una psicologa alla quale sono bastate poche sedute per fare una diagnosi, usando una sola parola: hikikomori.

Così, questa donna, madre di un ragazzino di 15 anni, ha cominciato a vedere la luce: individuato il problema, ora può, insieme agli specialisti, cercare anche le soluzioni.

Hikikimori, una parola praticamente sconosciuta in Italia che deriva dal giapponese "hiku" (tirare) e "komoru" (ritirarsi) e significa letteralmente "stare in disparte, isolarsi".

Indica quelle persone, soprattutto giovani e giovanissimi, che, a un certo punto della loro vita, abbandonano la vita sociale e si ritirano nella loro stanza.

Niente a che fare con quei ragazzi che diventano dipendenti di videogiochi o chat.

Secondo gli studiosi del fenomeno, solo il dieci per cento di questi ragazzi trascorre il proprio tempo davanti a un computer. Tutti gli altri impiegano il tempo leggendo, girovagando per la stanza e oziando.

E, addirittura, talvolta sono talmente restii ad avere contatti con altre persone da pretendere che i pasti vengano lasciati loro in un vassoio davanti alla porta, rigorosamente sprangata, della loro stanza.

Giulia (la chiameremo così convenzionalmente) ha scoperto solo recentemente che il figlio è un hikikomori. Ma, per tanti anni, ha sofferto senza sapere che problema avesse Marco (anche in questo caso un nome convenzionale).

"Lui", racconta, "già dalle elementari ha sempre avuto difficoltà a stare al passo dei compagni, al punto che veniva considerato dagli insegnanti un ragazzino privo e svogliato. In quinta elementare, mi è stato suggerito di portarlo da un neuropsichiatra infantile per capire se non avesse un disturbo dell'apprendimento. Nel frattempo, è entrato alla medie e, visto le maggiori difficoltà, la situazione è peggiorata".

Giulia era quasi rassegnata a doversi occupare di un figlio con grossi problemi.

Così ha portato Marco da un logopedista, che ha dato un verdetto assolutamente inatteso: non solo il ragazzino non aveva disturbi dell'apprendimento ma, addirittura, aveva un quoziente intellettivo superiore alla media. Ma la situazione non è migliorata. Anzi.

"A quel punto, molti insegnanti si sono convinti del fatto che Marco fosse soltanto pigro e hanno cominciato a denigrarlo. Lui non poteva non risentirne: ogni volta che aveva più ore di lezione con quegli insegnanti accusava mal di pancia con conati di vomito e attacchi di diarrea. La situazione è leggermente migliorata dopo una riunione alla quale hanno preso parte preside, docenti, genitori ed equipe della neuropsichiatria".

In terza media la situazione ha rischiato di precipitare: mentre lo psicologo che lo seguiva si limitava solo a fargli ramanzine, diventava sempre più difficile per Giulia portare Marco a scuola. Al punto che il ragazzino ha rischiato di non essere ammesso all'esame di licenzia media.

Solo grazie a tante ripetizioni private, si è rimesso al passo con i compagni e ha potuto sostenere l'esame. Ma quello sforzo è stato pagato a caro prezzo.

"Anziché festeggiare per la fine della scuola e godersi le vacanze, si è rinchiuso nella sua stanza per tutta l'estate".

Nel frattempo, Marco ha deciso di non farsi più visitare, nonostante i genitori si fossero rivolti a uno psichiatra diverso da quello che lo rimproverava.

L'inizio dell'anno scolastico al primo anno delle superiori sembrava l'inizio della nuova vita.

"Lui, sempre ritardatario nell'entrare a scuola, voleva essere puntuale e portava con sé tutti i libri. Non solo: cosa mai accaduta prima, ci aveva anche avvertito di una riunione a scuola con i genitori per illustrare quello che si faceva a scuola".

"Solo un fuoco di paglia: la classe in cui era finito Marco era 'difficile', formata, in parte, da ragazzini eccessivamente vivaci. Addirittura, dopo appena una settimana, c'era già la prima proposta di sospensione nei loro confronti".

Nel giro di un mese, l'entusiasmo era già finito ed erano ricominciati i ritardi, i mal di pancia e le assenze. Anche perché altri genitori, preoccupati per quello che accadeva in classe, avevano portato via i loro figli. Anche Marco viene mandato in un'altra scuola. Ma, ormai, qualcosa si era nuovamente rotto.

E le cose sono peggiorate ulteriormente quando una psicologa e una neuropsichiatra hanno preso atto del fatto che Marco non voleva andare in ambulatorio e hanno deciso di fare una visita domiciliare.

"Ma lui non ne ha voluto sapere di aprire la porta della sua stanza anche perché l'approccio dei due specialisti non era stato particolarmente azzeccato. Andando via, mi dissero che era necessaria una terapia farmacologica e, se la situazione non si fosse sbloccata, anche il ricovero. Come era possibile che, senza neanche aver visto mio figlio, prendessero in considerazione terapie così drastiche?".

Alla fine, visto che Marco aveva espresso il desiderio di riprendere ad avere una vita normale, consigliarono a Giulia di rivolgersi a un educatore.

"Ho cercato una psicologa privata che seguisse mio figlio a casa: dopo pochi incontri, arrivò la sua diagnosi: hikikomori. All'inizio, ho pensato che avesse preso una gigantesca cantonata. Ero convinta che gli hikikimori fossero quei ragazzi che si rinchiudono in casa per usare i videogiochi mentre mio figlio non stava online, perché si annoiava, se non c'erano gli amici. Poi, ho iniziato a documentarmi: sì, mio figlio era, al cento per cento, un hikikomori".

L'inizio della salvezza. "Ho iniziato a seguire le indicazioni e le linee guida dell'associazione Hikikomori Italia: mio figlio non era strano o malato. Ho allentato la pressione su Marco e lui ha cominciato a ritrovare un po' di serenità. Dopo un anno e sette mesi, siamo ancora molto lontani dall'aver ripristinato una vita normale. Ma ora, ottimo segnale, ha anche ricominciato a uscire con il suo miglior amico che, nonostante i tanti bidoni presi negli anni, non lo ha mai abbandonato".

Proprio nei giorni scorsi, la comunità La Collina di Serdiana ha ospitato un incontro perché si è costituita la sezione sarda di Hikikomori Italia.
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