Se si ritiene che non esista nel nostro Paese una "questione meridionale", ma solo un alibi o un pretesto dei meridionali, come vanno sostenendo in parecchi, si potrà dire altrettanto per la "questione sarda", che dal Tuveri in avanti ha tenuto banco nelle politiche rivendicazioniste delle nostre classi dirigenti? Si tratta di una domanda che è giusto porsi allorquando pare affacciarsi prepotentemente, con il suo carico di egoismi e di pretesti antagonistici, una pericolosa "questione settentrionale".

Si è quindi dell'avviso che si tratti di un problema da porsi, da dover affrontare con responsabile attenzione, sul come affrontare il divario qualitativo e quantitativo, dai comfort di vita alle disponibilità economiche, esistente fra le comunità sarde e quelle dell'altra Italia.

Bisognerebbe cominciare ad interrogarsi se la strategia rivendicazionista tradizionale, tesa ad ottenere maggiori risorse da Roma o da Bruxelles, in una logica soltanto quantitativa, abbia prodotto vero sviluppo economico o solo crescita sociale. Bisognerebbe capire se i gruppi dirigenti selezionati nel tempo, o più spesso cooptati dall'alto, si siano affermati soltanto in ragione delle loro capacità di rappresentare le emergenze e di rivendicare interventi e risorse da Roma o da Bruxelles, e non per le loro capacità di dare idee ed indirizzi validi per "continentalizzare" la qualità della vita di noi sardi. Alle importanti risorse impegnate, ai parecchi tentativi immaginati come risolutivi, non sempre avrebbero corrisposto delle scelte politico-strategiche degne di questo nome.

Inizialmente, ci si riferisce al trentennio 1960-90, ci si era perlopiù limitati a trasferire nell'isola dei modelli, dei soggetti e dei processi di sviluppo, estranei se non proprio avversi all'habitat locale ed alle cognizioni e competenze disponibili nell'isola.

Successivamente, a partire dall'ultimo decennio del secolo scorso, allo sviluppo esogeno si è inteso sostituire quello endogeno, in modo da coinvolgere direttamente le istituzioni e le forze sociali locali, in quella fase che viene definita dello sviluppo locale.

Un'esperienza che avrà come strumenti attuatori i vari patti territoriali, i Leader, i piani integrati d'area, la programmazione negoziata, ecc. ecc. Una parcellizzazione di interventi perlopiù dispersivi che avrebbero moltiplicato egoismi campanilistici, promosso duplicazioni d'iniziative e vanificato i risultati positivi. Privandoli soprattutto d'una visione organica d'insieme con la realtà regionale.

I risultati ottenuti da queste due esperienze non sarebbero stati quindi quelli previsti o sperati. Se nella prima fase, quella dell'importazione degli investimenti, si sarebbe registrata l'estraneità di molte iniziative alla cultura ed alle conoscenze locali, privandole del necessario gradiente di complementarietà con le realtà sociali e culturali isolane, in quella successiva avrebbe giocato negativamente, per le piccinerie degli interventi, il mancato collegamento con le opportunità dei mercati esterni e con le necessarie integrazioni con l'economia internazionale.

Si è quindi dell'opinione che per affrontare efficacemente oggi una "questione sarda 2.0" non serva pretendere solo più soldi da Roma o da Bruxelles, secondo i rituali passati e tuttora in auge, ma bisognerebbe saper predisporre, prioritariamente, dei progetti organici di interventi a respiro regionale, indicando sul dove e come indirizzarli, in modo da individuare un insieme di infrastrutture ed un tessuto produttivo che siano efficaci, efficienti e diffusi. Contestualmente, occorrerebbe rinvigorire il "capitale sociale" disponibile, cioè diffondere nell'isola un tessuto di relazioni, di competenze, di conoscenze e di capacità civiche.

Quali progetti potranno consentire la risoluzione delle attuali difficoltà? Quale ruolo potrà e vorrà interpretare la Regione, con il suo nuovo Consiglio e la nuova sua Giunta? Quali funzioni andrebbero potenziate per investire al meglio gli interventi e gli appoggi di Roma e di Bruxelles? Sono queste soltanto alcune delle preoccupazioni che si possono sollevare nel tentativo di dare uno sguardo al futuro prossimo venturo della nostra Sardegna.

Per molti segnali, parrebbe necessario partire con il rinvigorire un fattore deficitario, e sofferente, dell'attuale situazione sarda: il sistema delle imprese. Ci sono infatti diversi aspetti negativi che andrebbero affrontati.

Si accenna qui alla prevalenza d'una microimprenditorialità poco competitiva e d'un microcapitalismo personale assai fragile che determinano un'inadeguatezza del sistema produttivo locale che andrebbe profondamente riformato, in modo da riuscire a ridare slancio ed efficacia allo sviluppo regionale.

Paolo Fadda

(Storico e scrittore)
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