Il popolo ha votato, viva il popolo! Questa è la sintesi delle elezioni in un sistema rappresentativo. La formula comincia a sollevare qualche perplessità, soprattutto da quando uno stile comunicativo ispirato al populismo domina sempre più la scena politica, motivo per cui serpeggia la sensazione che si possano persino mettere in discussione una conquista garantita da quasi un secolo in tutti i paesi sinceramente democratici: il riconoscimento universale del diritto di voto.

La giustificazione per un ripensamento critico risiede nel pur semplicistico ragionamento di ritenere che ogni cittadino possa sostenere chiunque voglia, purché l'esito garantisca degli effetti e delle politiche non ingannevoli. Si tratta di una richiesta giuridicamente irricevibile e soprattutto formalmente anticostituzionale, sebbene non pochi opinionisti abbiano recentemente espresso la più completa esasperazione nei confronti di una democrazia iper-rappresentativa. Dunque, il diritto di voto, uguale e libero, la tipica conquista della moderna democrazia, viene accusato di aver avvelenato la democrazia a causa di un eccesso di rappresentanza.

L'eccesso consisterebbe nel non verificare adeguatamente le proposte politiche offerte dai diversi schieramenti e dai leader, i quali, a loro volta, per acquisire il consenso tendono a identificarsi con i bisogni più radicali ed estremi espressi dall'elettorato. Ne scaturisce una combinazione che contrasta con le regole che disciplinano l'ordinata amministrazione di uno stato e l'efficiente gestione dei conti pubblici.

M a l'argomento rischia di diventare noioso e molto cervellotico, di conseguenza è opportuno illustrarlo con un esempio concreto: sabato scorso, la più famosa manifestazione canora d'Italia si è conclusa con un verdetto che ha fatto molto discutere.

È curioso come la polemica, al di là dei meriti dei competitori, si sia anche concentrata sul meccanismo che ha determinato il vincitore. Critici musicali e opinionisti che da molto tempo seguono il concorso della canzonetta italiana ritengono, infatti, che la vittoria non possa essere attribuita soltanto mediante il televoto. Il titolo di migliore canzone della competizione non può quindi essere affidato unicamente allo "spettatore sovrano", in quanto si tratta di una platea oggettivamente non competente. Perciò, il risultato espresso dalla volontà popolare viene corretto da una giuria di "ottimati" composta da figure di provata scienza musicale.

Il concetto dalla disputa canora rischia di essere esteso alla disputa politica, in quanto si diffonde sempre con maggior insistenza l'idea che non tutti, nonostante i diritti civili e politici riconosciuti, siano in grado di esprimere una preferenza in favore di un partito o di un candidato con la stessa attenzione che potrebbe esprimere colui che ha veramente consapevolezza degli effetti prodotti da ogni singola scelta politica.

È senz'altro un paradosso, frutto di una banale riflessione, sebbene ci si domandi di frequente se per scegliere i destini di una nazione, di un territorio, di una regione, di una città, non sia doveroso possedere maggiore coscienza dell'esercizio di un diritto che le Costituzioni moderne ci riconoscono. Scegliere e decidere richiedono una dose almeno minima di responsabilità e i dati ci confermano che una parte crescente della popolazione italiana in questo momento di crisi e di instabilità preferisce disinteressarsi della politica delegando ad altri questa fondamentale funzione.

Il disimpegno e il distacco dalla cosa pubblica, ma anche la scarsa partecipazione e l'astensione sono le spie di un assetto democratico che denota forti squilibri e profondi sbandamenti. Quindi, prima di vagheggiare soluzioni bizzarre, sarà opportuno dedicare più attenzione ai processi di selezione del personale politico e dell'offerta politica, funzione svolta in passato dalle deprecate, quanto rimpiante, scuole di partito.

Marco Pignotti

(Docente di Storia della comunicazione politica, Università di Cagliari)
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