Sono tre le preoccupazioni pastorali che Papa Francesco, anche di recente, ha confessato, con la consueta schiettezza e semplicità, ai vescovi italiani: la crisi delle vocazioni, l'impegno per la povertà e, terzo, ma non meno importante, la riduzione delle diocesi italiane.

Su questo tema Bergoglio aveva già usato toni quasi ultimativi: «Si tratta di un'esigenza pastorale studiata da molto tempo, già prima del Concordato del 1929. Paolo VI, nel 1964, rimarcò "l'eccessivo numero delle diocesi" invitando a "ritoccare i loro confini" quando non procedere "alla loro fusione in non pochi casi"». Stiamo parlando di un argomento datato e attuale, «trascinato per troppo tempo», sottolineava Papa Francesco, precisando: «Credo sia giunta l'ora di concluderlo al più presto. È facile farlo, facile».

Per la Chiesa sarda sono parole di attualità, in questo inizio d'anno, una congiuntura particolare: tre diocesi, quelle dei capoluoghi Oristano, Nuoro e Cagliari, in sequenza temporale, si ritroveranno a congedarsi, per raggiunti limiti di età, dai loro rispettivi pastori e guide. Ignazio Sanna, arcivescovo arborense, che di anni ne compie 77, chiude il suo mandato anche in regime di proroga biennale, mentre Mosè Marcia, giunto ai 75, lascerà vacante la sede di Nuoro. Discorso a parte merita Cagliari dove il problema si porrà solo a luglio quando anche all'attuale reggente Miglio scadranno i due anni di proroga concessi dopo il raggiunto limite di età.

Quale migliore e favorevole occasione si potrebbe presentare per cominciare a dare attuazione al disegno fortemente voluto dal Papa e ancorato, nel caso della Sardegna, a una modesta popolazione residente che, per intero, non fa nemmeno una diocesi brasiliana o africana?

Le dieci diocesi nelle quali è suddivisa la regione ecclesiastica sarda paiono fra le maggiori indiziate a quel processo di accorpamento, fusione, riperimetrazione di cui ha parlato il Papa ai vescovi.

La diocesi ogliastrina, in questa ottica, potrebbe confluire in quella di Nuoro, così come quella di Ales-Terralba nell'arcidiocesi di Oristano. Si otterrebbe, intanto, una prima riduzione delle chiese locali (che passerebbero dalle attuali dieci a otto) ma soprattutto si getterebbero le basi per una revisione più profonda dell'attuale geografia ecclesiale isolana.

Un processo, oramai irreversibile e non più procrastinabile, che andrebbe a razionalizzare un apparato burocratico fatto di curie, uffici diocesani e seminari retto quasi esclusivamente da un clero sottratto inevitabilmente alle cure pastorali e alla guida delle parrocchie. Dieci diocesi rappresentano, laicamente parlando, un lusso che la Chiesa sarda non può più permettersi, sia in termine di pura gestione di beni materiali che di conduzione spirituale delle comunità locali.

Sarà interessante verificare come la Conferenza episcopale sarda - in una terra di 24mila chilometri quadrati con appena un milione e seicentomila abitanti - recepirà questa sorta di ultimatum lanciato da Papa Francesco con toni che, seppure con paterna mitezza, non lasciano spazio ad altri rinvii. «È facile farlo, facile».

Come sempre avviene in queste stagioni di fine mandato episcopale, negli ambienti curiali e non, impazza il toto-vescovo con previsioni, sogni, anticipazioni, macchinazioni, spesso, allegramente smentite.

Ma davvero la Chiesa sarda, alle prese con uno spopolamento che non è solo quello delle zone interne, ma che è anche quello delle parrocchie e dei seminari, ha bisogno di nuovi vescovi?

Paolo Matta
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