C'è solo una freccia in mezzo a due parole - "Piazza grande" - che è lo slogan della campagna delle primarie di Nicola Zingaretti. E poi, sotto la foto del Governatore, c'è una parola d'ordine che in altre condizioni non avrebbe turbato nessuno: "Per cambiare". Ma la notizia di ieri è che non c'è il simbolo del Pd nel manifesto ufficiale della campagna del candidato che è in testa dopo la consultazione degli iscritti. E ovviamente, nella serata di ieri è bastata questa notizia, che rimbalzava e che si amplificava sui social, per far esplodere un caso: "Zingaretti cancella il simbolo del Pd!", hanno gridato in coro i suoi avversari.

Su Twitter ha scritto un messaggio durissimo uno dei due sfidanti, Roberto Giachetti: "Nicola ti sei candidato alle primarie del Pd, per diventare segretario del Pd. E in tutta la tua campagna - attacca il candidato più vicino a Renzi - hai fatto sparire il nostro simbolo. È molto grave. Se pensi a qualcosa di diverso dal Pd, forse per far rientrare chi se ne è andato - conclude Giachetti - è giusto che i nostri elettori lo sappiano".

Giachetti allude al ritorno possibile di molti che sono andati in Leu, da Roberto Speranza a Pierluigi Bersani, e che ovviamente lui non vuole rivedere nemmeno in cartolina. Gli ho chiesto perché, e Giachetti mi ha risposto così: "Sono degli scappati di casa, hanno lavorato contro il progetto del Pd di Renzi. Hanno lavorato per ucciderci". Ma il problema è più complesso di una polemica di giornata.

Ma il problema è più complesso di una polemica di giornata. La prima riflessione che mi viene in mente è sul potere incredibile dei simboli, in politica. Si declinano nel nostro immaginario per presenza, ma in questo caso - evidentemente - anche per assenza e privazione: se sotto il sorriso del candidato leader ci fosse stato il logo del Pd nessuno si sarebbe nemmeno accorto di questo manifesto. È stato proprio quel vuoto a renderlo un deflagrante detonatore polemico. È il vuoto che riempie il dibattito, è il sentimento del contrario che accende il problema, nell'assenza della politica.

A ben pensarci tutto il dibattito del Pd vive tutto di questo paradosso: il nuovo libro di Matteo Renzi si intitola "Un'altra strada" (ed anche qui il sottointeso è che la vecchia non vada bene, ma quale?), e da mesi la polemica ruota intorno alla nuova lista proposta da Carlo Calenda (oltre il Pd, con nuovi alleati) per le elezioni europee. Da sinistra anche Laura Boldrini vuole una lista nuova, (ma con ingredienti diversi da quelli di Calenda).

Tutti vogliono aggiungere qualcosa e tutti vogliono sottrarre qualcos'altro: Calenda vorrebbe togliere la sinistra per mettere più centro, mentre la Boldrini vorrebbe fare esattamente il contrario. Ecco perché la discussione sul vuoto diventa terribilmente seria. Nel 1989, il dibattito sulla fine del Pci iniziò dopo la Svolta della Bolognina e durò addirittura per due anni, fino alla nascita del PDS e della Quercia. Michele Serra, per spirito satirico cambiò persino nome al suo settimanale, che si chiamava "Cuore" e divenne "Milza". Le famiglie si infransero su questa divisione, e fece epoca la lettera pubblicata su l'Unità di una moglie comunista, contraria al cambio del nome, che spiegava di volersi separare dal marito. Lui era favorevole alla Svolta e lei soffriva: "siamo cresciuti insieme ma ora non lo riconosco più. Mi sembra che ormai non possiamo più condividere nulla della nostra vita".

Era ancora un tempo di nomi e cose che si declinavano come se fossero i dilemmi teologici de "Il nome della Rosa" di Umberto Eco: "Nomina sunt consequentia rerum". Ma oggi i nomi, e i simboli, di quali cose sono l'essenza?

Ecco perché il non-simbolo di Zingaretti diventa così importante. Serve a spiegare in maniera brutale e intuitiva che il governatore del Lazio vuole un partito che non abbia più nulla a che vedere con quello del suo predecessore. Zingaretti ha risposto a Giachetti con queste parole: "È così da mesi e ve ne accorgete ora? Stiamo allargando la base popolare del Pd!".

È un dibattito interessante, ma per uscire dalle stanze della politica deve riempirsi di contenuti. Si può vincere la battaglia a sinistra, infatti, anche per allusioni. Ma perché la sinistra torni a vincere occorre che smetta di essere una disputa per eruditi, sui nomi e sui non nomi, per diventare un grande dibattito: non più su quello che non c'è più (ormai si è capito) ma su quello che ci deve essere.

Luca Telese

(Giornalista e autore televisivo)

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