È recente lo stanziamento, nella finanziaria regionale, di alcuni fondi alla cultura, in particolare nel settore dello spettacolo. Si dirà: una buona notizia, avendo il Consiglio contribuito ad iniziative importanti. Ma non tutti ne sono convinti, specie coloro che finanziamenti ad personam non ne hanno ricevuti e debbono attendere i bandi pubblici, quando questi apriranno.

In effetti, il tempismo preelettorale qualche dubbio lo genera, visto che, si sa, questa è epoca di vacche grasse, ed un aiuto, a chi sa esserne grato, non si nega mai. Eppure, proprio in Sardegna, si era creato un argine a queste prassi con la legge 18 del 2006: una disciplina avanzata sul finanziamento dell'offerta culturale attraverso procedure pubbliche certe e trasparenti per tutti. Troppo bello per essere vero: fatta la legge, trovato l'inganno. Si è infatti sostenuto che, mancando la programmazione amministrativa sul settore, la legge stessa non potesse diventare efficace. Un po' come mandare in campo un arbitro senza volergli dire che sport arbitrare.

Dal 2013 quella legge è dunque rimasta lì, silente, inattuata, con l'inesorabile ritorno all'antica prassi dei contributi ad personam: ai più noti, ai più bravi, ai più belli. E con l'inevitabile esito che le migliori energie, nel settore culturale, non riescono a organizzarsi, programmare investimenti, eccellere. Così, in Italia, i pochissimi danari stanziati per la cultura (il World Cities Culture Finance ci dice che tra le prime trenta città al mondo per spesa pubblica sulla cultura nessuna è italiana) vengono distribuiti come prebende.

Tanto, si è detto: con la cultura "non si mangia", ci pensi lo Stato. Certo, nella cultura i contributi pubblici sono essenziali per il noto funding gap: l'endemica difficoltà di coprire i costi coi ricavi. Lo dicevano anche Baumol e Bowen, negli anni sessanta, ritenendo che il teatro, in particolare, fosse "malato di costi". Non a caso anche la UE, nel settore culturale, consente gli aiuti pubblici. Ma da qui a ritenere che le imprese culturali non debbano svolgere attività economica e intraprendere competitivamente ce ne passa. È come dire: senza soldi pubblici non sopravvivono, tanto vale che la politica li aiuti - diciamo così - "democraticamente".

L'esito di questa malintesa idea della cultura è sotto gli occhi di tutti. Il Paese col maggior numero di siti Unesco e con uno straordinario patrimonio culturale, ben eccedente la domanda interna, è costretto ad elemosinare i soldi dei contribuenti per tirare a campare. Mentre altri, con un'offerta culturale risibile, paragonata alla nostra, fanno enormi fortune. I nostri artisti emigrano; accolti in centinaia di residenze in Cina o incoraggiati con borse di studio scandinave o tedesche.

Intanto i nostri cinque musei più performanti (Pinacoteca di Brera, Egizio di Torino, Archeologico di Napoli, Galleria Borghese di Roma e Uffizi di Firenze) fatturano, tutti insieme, circa il 13% del British Museum, 16% del Louvre, 8% del Metropolitan Museum, 60% del Prado. Mentre la Capitale europea della Cultura 2019, Matera, apre oggi i battenti: una straordinaria occasione di podismo culturale. Ci si arriva solo a piedi.

D'altra parte, i dati più recenti dicono che oltre l'88% della popolazione italiana non ha mai visto un concerto di musica classica, il 78% non ha mai visto uno spettacolo teatrale, il 49% non ha mai letto un quotidiano, il 56% non ha mai aperto un libro.

Ben vengano, quindi, la riforma del terzo settore, la Conferenza nazionale dell'impresa culturale, il rilancio dell'impresa sociale ed i processi di condivisione voluti dalla Conferenza di Faro. Ma se il sistema di finanziamento alle attività culturali rinuncia a sostenere le migliori iniziative, attraverso sistemi aperti, trasparenti e meritocratici, l'impresa culturale non si svilupperà mai. E le associazioni resteranno affette da nanismo, costrette come sono, ad ogni tornata elettorale, a genuflettersi al politico di turno per tirare avanti.

Insomma, siamo alle solite: anche in questo campo, con la scusa di riporre il patrimonio culturale in mani sicure, quelle dello Stato, si è riusciti a seminare servilismo piuttosto che innescare imprenditorialità. Non è quindi il mercato culturale ad essere malato di costi, ma la politica subculturale a contaminarlo, impedendogli di svilupparsi. Di lì il passo è breve e inevitabile: dalle prebende alla cultura, alla cultura delle prebende.

Aldo Berlinguer

(Docente, Università di Cagliari)
© Riproduzione riservata