Durante la discussione della legge di Bilancio alla Camera, il movimento 5 Stelle ha presentato un emendamento che prevede la generalizzazione del tempo pieno nella scuola primaria, a partire dall'anno scolastico 2019/20, e l'assunzione di 2000 insegnanti, necessari per coprire la differenza di orario tra il tempo normale di 24 o 27 o 30 ore e il tempo pieno di 40.

L'intento è duplice. Uno di natura pedagogica, giacché il tempo pieno consente ritmi di apprendimento più distesi e un curricolo più articolato e ricco, con più attività e più discipline, come la lingua straniera e la musica; e uno di carattere sociale, in quanto consente ai genitori che lavorano di liberare una parte della giornata dalle cure della prole. Che sono poi le motivazioni con le quali, a partire dagli anni '70, sono nate nel Paese le scuole a tempo pieno, con una diffusione a macchia di leopardo, più frequenti al Centro Nord che al Sud. I sindacati hanno subito obiettato che i duemila insegnanti previsti nella proposta sarebbero appena sufficienti per incrementare di 3-4 punti la percentuale delle classi a tempo pieno attualmente funzionanti nel Paese, che raggiunge, con differenze sensibili da regione a regione, il 34. Un incremento irrisorio, appena sufficiente a coprire il fabbisogno di una piccola parte del territorio nazionale. Tuttavia, presa per buona l'idea, il governo potrà distribuire negli anni l'impegno finanziario necessario per assumere gli altri 50.000 insegnanti necessari a coprire di presenza docente le ore dei tempi pieni dalla Valle Padana alla Sicilia, passando per la Sardegna.

Sardegna che, va detto, primeggia per diffusione del tempo pieno tra le regioni del Sud, col suo bravo 22,4%. Giunti a quel punto, integrato l'organico, e risolto in parte il problema della disoccupazione magistrale, si tratterà di riempire di sostanza pedagogica le ore disponibili. Difficile ma non impossibile. I comuni adegueranno le strutture e finanzieranno la mensa. Il Ministero emanerà orientamenti e indicazioni generali alle autonomie scolastiche a garanzia dell'efficacia dell'innovazione e dell'unitarietà del sistema. Gli insegnanti impareranno, sulla scorta delle esperienze già in corso, a lavorare in équipe, assicurando la continuità didattica e l'unitarietà dell'insegnamento, pur in presenza di una articolata pluralità di presenze ciascuna gelosa della propria autonomia.

Ma qualche problema ci sarà ancora. Quando, negli anni Settanta, vennero introdotte le attività integrative (teatro, pittura...) e gli insegnamenti speciali (musica, lingua straniera...), necessari per l'avvio del tempo pieno, si aprì un confronto tra favorevoli e contrari. I primi accampavano ragioni di carattere pedagogico e sociale analoghe a quelle che oggi prospettano gli autori del citato emendamento, ed anche, ma sotto traccia, occupazionali; i secondi segnalavano il rischio di trasformare la scuola in una istituzione totale, e di operare una vera e propria segregazione generazionale, appropriandosi di gran parte della giornata del ragazzo, condannato a trascorrere troppe ore insieme ai coetanei, privato delle relazioni con l'adulto, genitori o parenti, del pari necessarie al suo sviluppo emotivo e affettivo. Ancora oggi esistono in certe aree del Paese e della popolazione, orientamenti simili. La ridotta percentuale di classi a tempo pieno in funzione non sempre è dovuta alla mancata nomina degli insegnanti necessari per attivarle o all'assenza della mensa negata da Comuni poveri o retrogradi. Spesso manca la domanda da parte dell'utenza, perché esiste a volte la percezione negativa del "troppo scuola", forse per colpa della scuola stessa, a volte povera di qualità e incapace di intercettare i bisogni e le attese dei ragazzi e delle famiglie.

Gabriele Uras

(Già dirigente del Miur)
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