«In questo momento di pandemia viviamo la fase più acuta di una crisi economica gravissima, ma in tutto questo c'è un grande paradosso. Assistiamo al fenomeno delle imprese che cercano manodopera senza però riuscire trovarla: dai servizi informatici a quelli medico-sanitari, dai servizi alle famiglie e alle comunità locali a quelli logistici e delle consegne a domicilio, di installazione e manutenzione, della certificazione e controllo di qualità, della sicurezza e della tutela ambientale. Il discorso vale anche per quasi tutti i settori dell'artigianato». Il giuslavorista Pietro Ichino, 71 anni, milanese, già parlamentare (deputato eletto come indipendente con il Pci e senatore con il Pd), nel suo libro "L'intelligenza del lavoro" appena pubblicato da Rizzoli riprende, aggiornandole ai tempi nuovi, questioni che hanno sempre caratterizzato la sua attività di studioso spesso controcorrente. Aveva persino "sfidato" le Brigate rosse utilizzando strumenti pacifici: analisi coraggiose per le quali ha trascorso anni di vita blindata. «Il mercato del lavoro», sostiene nel suo volume, «dev'essere visto anche come un luogo dove sono le persone a scegliersi l'imprenditore. Nel libro li indico come veri e propri "giacimenti occupazionali" che devono essere valorizzati». Insomma, un rovesciamento di prospettiva che a Ichino sembra sostenibile anche in questo momento, nel quale milioni di persone stanno perdendo il lavoro.

Non crede che in questo momento il Covid stia modificando profondamente il mercato dell'occupazione?

«È così ed è sacrosanto che, a chi perde il posto, venga assicurato un robusto sostegno del reddito. Ma ciò che oggi troppo pochi hanno, è la possibilità di scelta tra diversi possibili percorsi efficaci verso le opportunità di lavoro che esistono. Ora, però, non bastano per assicurare l'occupazione a tutti quelli che ne hanno bisogno. Nel libro mostro che, prima della pandemia, i posti di lavoro permanentemente scoperti per mancanza delle persone adatte a ricoprirli erano, secondo il censimento Unioncamere-Anpal, 1,2 milioni: abbastanza per dimezzare il tasso di disoccupazione che si registrava all'inizio dell'anno, riducendolo nei limiti fisiologici della cosiddetta "disoccupazione frizionale". E anche oggi, pur nell'occhio del ciclone di una crisi gravissima, ci sono molti settori che avrebbero bisogno di personale che non trovano: sarebbe importantissimo che percorsi di formazione mirata indirizzassero i disoccupati verso quei settori».

Di recente ha proposto di separare gli anziani dai giovani, per proteggerli dal virus. Non sarebbe una discriminazione?

«Il Covid-19 ha un tasso di letalità bassissimo per chi ha meno di cinquant'anni, altissimo per chi ne ha più di sessanta. La proposta è dunque consentire agli under 50 di andare a scuola o al lavoro senza limitazioni, cercando invece di creare ambienti separati per i più anziani e semmai riservando a loro il lavoro da remoto e la cassa integrazione. Una separazione totale non sarebbe possibile. Quanto più si riuscisse ad attuarla, tanto più si ridurrebbero i danni da contagio, limitando quelli all'economia nazionale».

In questo modo, però, non correremmo il rischio di riaprire le scuole agli studenti, mentre gli insegnanti resterebbero a casa?

No, a scuola si potrebbero lasciar andare anche gli insegnanti fino a un certo limite di età, per esempio i 55 anni. Solo agli altri si dovrebbe chiedere di fare lezione da casa, fornendo i mezzi tecnici e lasciando che siano gli insegnanti più giovani a tenere in aula i ragazzi».

Lo smart working è adottato ampiamente negli altri settori della pubblica amministrazione. Con quali risultati?

«Nella maggior parte dei casi, in realtà, si è coperta con l'etichetta dello smart working una sostanziale sospensione del lavoro. Non per colpa dei lavoratori interessati, ma perché mancavano del tutto le condizioni per il lavoro agile: a cominciare dall'accessibilità da remoto dei gestionali e dei data-set delle amministrazioni. Il virus ci ha fatto capire quanti danni abbiano causato i tagli al sistema sanitario. E anche quanto dannoso sia il ritardo nell'utilizzazione degli oltre 30 miliardi che ci sarebbero messi a disposizione dal Mes, proprio per ammodernare le nostre strutture sanitarie».

Quanto è a rischio il nostro sistema di welfare. Reggerà all'ondata del Covid?

Purtroppo già da prima che si abbattesse sul mondo questa catastrofe c'era motivo di pensare che il nostro sistema pensionistico fosse minato da uno squilibrio strutturale, nonostante la legge Fornero avesse eliminato le cause di squilibrio precedenti».

A che cosa si riferisce?

«Al fatto che l'equilibrio raggiunto con la riforma del 2011 si basava sul presupposto che la popolazione attiva fosse destinata a non decrescere nei decenni successivi. Ora, invece, l'Istat ci dice che il Paese perde circa trecentomila italiani ogni anno, che in vent'anni fanno circa il dieci per cento del totale. Basta molto meno per mandare gambe all'aria anche un sistema pensionistico più solido del nostro».

Lei ha insegnato all'Università di Cagliari tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta.

«Sono stati i primi anni del mio insegnamento come professore di Diritto del lavoro: ne ho un ricordo bellissimo, non soltanto per il rapporto che avevo con gli studenti, ma anche per le amicizie che nacquero con tanti cagliaritani e con la città stessa, alla quale mi sento ancora molto legato».

Come vede a distanza la situazione della Sardegna? Il virus rischia di creare ulteriori danni soprattutto all'industria turistica, paralizzata.

«La pandemia ha proprio questo, di odioso: colpisce soprattutto i più deboli, sia tra le persone sia tra le realtà economiche. Però potrebbe rivelare di avere anche un risvolto positivo per quanto riguarda la Sardegna: ha costretto le persone ad acquisire familiarità con le tecniche del lavoro da remoto, cioè il lavoro agile. Può voler dire in prospettiva una riduzione notevole degli effetti negativi dell'insularità».

Massimiliano Rais

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