Matteo Salvini va ripetendo che i governi che lo hanno preceduto hanno uniformato la nostra politica di bilancio alle condizioni restrittive richieste dall'Europa. Egli attribuisce a tali politiche la causa della mancata crescita del Paese e propone di passare a politiche espansive come condizione per far ripartire la crescita. Intende così sottrarsi al pressing della Commissione che invoca interventi correttivi per rimettere in carreggiata i conti pubblici italiani, altrimenti sarà inevitabile l'apertura formale della procedura d'infrazione per debito eccessivo.

Salvini considera tale procedura un accanimento nei confronti dell'Italia e propone una riduzione generalizzata delle imposte con la flat tax. «Abbassiamo le tasse per 10 miliardi altrimenti lascio», va ripetendo Salvini. La prossima legge di bilancio, ha sostenuto dall'America, «dovrà essere trumpiana», nel senso che ridurrà le tasse in deficit spending, esattamente ciò che l'Europa contesta all'Italia col cartellino rosso di una possibile procedura d'infrazione.

Dunque, Salvini lascia intendere che il governo del cambiamento non rispetterà le regole di bilancio europee, perché per far ripartire la crescita occorrere passare dalle politiche restrittive imposte dall'Europa a politiche espansive. Ma è facile dimostrare che Salvini ha torto e che Renzi e Gentiloni hanno fatto politiche espansive, pur nel rispetto delle regole europee.

Di fatto, il vicepremier leghista vuol combattere un'austerità di comodo, che nella realtà in Italia non esiste più sin dal 2013.

Come si misura l'austerità? Tecnicamente, essa è misurata dal saldo primario del bilancio pubblico, dato dalla differenza tra entrate e spese delle amministrazioni pubbliche, escluse le spese per interessi passivi. Ad un saldo primario positivo e in crescita corrisponde un maggiore risparmio della Pubblica amministrazione e quindi una maggiore austerità, ma anche una maggiore sostenibilità del debito, e viceversa. Per tutti gli anni '70 e '80 e sino al 1992, il saldo primario italiano era costantemente negativo, per cui la politica di bilancio è risultata espansiva sino alla crisi finanziaria del 1992. Il default allora fu evitato dal governo Amato con una correzione dei conti dell'8% del Pil, che oggi corrisponderebbe a una manovra di 160 miliardi di euro.

Dal 1992 al 1998, la politica di bilancio cambia segno, da espansiva diventa restrittiva, in vista dell'adesione del Paese all'Unione Monetaria Europea (UME). Il segno dell'inversione è dato da un saldo primario di bilancio che diventa positivo e crescente, sino ad arrivare al 6% del Pil nel 1998. A questo punto, come sostiene Tommaso Monacelli su Lavoce.info, l'Italia spreca un'occasione storica per stabilizzare il debito pubblico poco al di sopra del 100% del Pil. Ciò sarebbe avvenuto se l'avanzo primario si fosse mantenuto intorno al 6% del Pil nei primi anni di funzionamento dell'UME. Invece, esso è sceso nuovamente a zero nel 2004 e a -2,5% alla vigilia della crisi finanziaria nel 2009.

Il governo Monti, per evitare un nuovo rischio di default, ricostituisce con politiche restrittive un avanzo primario al 4,1% del Pil nel 2013, ma dopo tale data le politiche di bilancio tornano espansive coi governi Renzi e Gentiloni. L'avanzo primario, infatti, scende nuovamente dal 4,1 all'1,2% nel 2017, con un allentamento (flessibilità) di bilancio di 2,9 punti di Pil, pari a circa 50 miliardi di euro. Non è quindi vero, come sostiene Salvini, che gli ultimi governi (Renzi, Gentiloni e anche Conte) abbiano fatto politiche restrittive. Il saldo primario è rimasto leggermente positivo, ma decrescente, quindi espansivo. Ha ragione Tria, non esistono scorciatoie, il debito si riduce ricostituendo un maggiore avanzo primario, il che esclude che si possano abbassare le tasse (flat tax) in deficit, come vorrebbe fare Salvini, altrimenti la procedura d'infrazione va avanti.

Beniamino Moro

(Docente di Economia Politica - Università Cagliari)
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