Come in ogni momento di crisi da un secolo a questa parte anche oggi, di fronte alle difficoltà economiche legate alla pandemia, il capitalismo è sotto accusa. Riemergono con più forza quelle voci ricorrenti che vorrebbero “resettarlo” e vorrebbero imporre nuove forme di responsabilità sociale per le aziende, in particolare quelle per azioni.

In direzione opposta va invece Franco Debenedetti nel suo ultimo libro dal titolo già di per sé esplicativo: Fare profitti (Marsilio, 2021, pp. 208, anche e-book). Per Debenedetti, una lunga carriera di imprenditore e di dirigente d’azienda alle spalle, il ruolo delle imprese all’interno della società non è certo quello di abbracciare la cosiddetta "decrescita felice".

"Nelle economie di mercato - spiega - la società affida alle imprese il compito di creare la ricchezza. All’origine c’è sempre un’idea – di un prodotto, di un servizio – che si possa vendere con profitto, cioè con un ricavo maggiore del costo degli input necessari a produrlo. Per realizzarlo ci vuole un’impresa, nella quale si regolino le relazioni contrattuali tra coloro che condividono quell’idea, chi fornisce gli input – di capitale, di materiali, di lavoro – e chi acquisirà gli output – soci, dipendenti, fornitori, clienti, creditori. Per un’impresa la cosa più semplice per seguire ‘le regole del gioco’ è assumere la forma della società per azioni e di seguire le regole del governo societario stabilite per gestire questo fascio di relazioni contrattuali".

Perché le imprese devono comunque perseguire gli utili anche in momenti di massima emergenza come quelli che stiamo vivendo?

"Proprio in un momento di emergenza, quando tante imprese sono impossibilitate a funzionare, per esempio per un lockdown, è necessario che quelle che riescono ancora a lavorare producano ricchezza. Un’azienda che non fa utili, metterà gli operai in cassa integrazione, a spese nostre; cercherà di sopravvivere chiedendo soldi in banca, che poi diventeranno ‘sofferenze’, che verranno smaltite anch’esse a spese nostre. Ci sono invece le imprese che possono continuare a lavorare, facendo prodotti che tutti chiedono; e magari ce ne sarà qualcuna che riesce ad aumentare i prezzi e a guadagnare di più: dovrà allora assumere e pagherà le tasse, e ci penserà la concorrenza a mantenere contenuti i prezzi".

La copertina del libro
La copertina del libro
La copertina del libro

Perché è importante la libera concorrenza?

"La famosa frase del premio Nobel Milton Friedman da cui sono partito nel mio libro, per cui c’è una e una sola responsabilità sociale dell’impresa, avvalersi delle proprie risorse e svolgere le proprie attività miranti ad accrescere i suoi profitti, non finisce lì ma continua così: ‘a patto, ovviamente, di rispettare le regole del gioco, vale a dire entrare in concorrenza aperta e libera con gli altri soggetti presenti sul mercato, senza inganni o frodi’. La concorrenza è elemento chiave per il buon funzionamento del sistema: il cui funzionamento è quindi alterato dalla presenza di aziende di Stato che sono monopoliste o per definizione o di fatto. E siccome è la concorrenza che stimola le innovazioni, le aziende di Stato la riducono, contrariamente a quanto vanno predicando i fautori dello statalismo".

Ma allora il capitalismo ha ancora ragion d’essere o è oramai sorpassato?

"Sorpassato? Al contrario: l’economista Branko Milanovic, famoso per la metafora dell’elefante, con cui rappresenta l’andamento delle diseguaglianze nel mondo, titola l’ultimo suo libro Capitalism, Alone. Fallite le economie pianificate, esiste solo il capitalismo, in due varianti: la liberal-meritocratica e la politica: la prima prevalente, con sfumature diverse, in quello che – in senso culturale – chiamiamo Occidente, la seconda al potere in Cina. L’interazione dei due tipi di capitalismo ha prodotto la più gigantesca redistribuzione di ricchezza mai avvenuta nella storia; in poco più di un secolo la percentuale di persone che viveva in condizioni di estrema povertà si è ridotta dall’85% al 4%; i bambini che morivano prima del quinto anno di età è passata dal 40% a uno su 25. La popolazione del mondo è cresciuta più di tre volte, ma contemporaneamente il PIL pro capite è passato da circa 3000 dollari a circa 15.000 dollari all’anno".

Perché, a suo parere, non è corretto attribuire al capitalismo il ruolo del colpevole delle disuguaglianze che pure esistono?

"La grande depressione del 1929, la bolla tecnologica del 2000, quella dei subprime e la grande recessione del 2008, la successiva crisi del debito sovrano, e ora il cambiamento climatico, vengono attribuite al ‘fallimento del capitalismo’. In realtà all’origine ci sono sempre errori dei governi, il più delle volte di politica monetaria. È però più facile pensare che i grandi problemi sistemici abbiano origine proprio nelle società per azioni e poi si aggreghino a livello della società in senso lato. Quindi basterebbe che esse cambiassero i loro obbiettivi e le loro funzioni per riprendere il compito di creare innovazione e ricchezza, in modo virtuoso".

Non è così?

"Assolutamente no. C’è una questione da chiarire: oggi shareholder value e stakeholder value sono diventate astrazioni, termini sintetici di visioni politiche e sociali opposte anche in modo esasperato. Il mio libro ruota in gran parte intorno a questo dibattito. Solo per chiarire il significato dei termini: quale obiettivo deve perseguire un’impresa? Deve perseguire l’obbiettivo di accrescere il suo valore a lungo termine, quindi per gli azionisti che ne sono proprietari (shareholder value), oppure deve accrescere il valore per tutti coloro che hanno interessi legati all’impresa (stakeholder value), i dipendenti prima di tutto, ma anche di tutte le comunità in cui l’azienda opera, in cerchi sempre più grandi, fino a comprendere l’ambiente tutto. Le ragioni per le quali questo secondo approccio sia economicamente negativo e possa diventare politicamente pericoloso sono il fulcro del mio libro".

Ma allora in che modo le imprese ci possono aiutare a uscire dall'attuale crisi?

"In che modo? Facendo il loro mestiere. Lasciandole fare il loro mestiere. Cercando di ristabilire le condizioni di mercato che sono state turbate, modificate o addirittura sospese, a causa della pandemia e a causa delle azioni che i governi hanno ritenuto di compiere per contrastarla o per compensare chi ne è stato colpito. Faccio solo un esempio di attualità: il divieto di licenziare, giusto nel colmo della crisi, impedisce il funzionamento fisiologico del mercato del lavoro, dove ci sono persone che lasciano un lavoro per trovarne un altro, perché cambiano le condizioni di mercato, di tecnologia, di situazioni personali. Questo meccanismo deve essere ristabilito, aiutando i dipendenti a riadattarsi, non bloccandoli in un’impossibile difesa del posto di lavoro. E questo vale anche per gli aiuti finanziari alle imprese: devono servire alle aziende capaci di riprendere, non a salvare quelle che erano in crisi già prima della pandemia. Non ci vuole accanimento terapeutico per le aziende zombi, ma incentivi a chi è capace di ‘fare profitti".
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