Alessandria d'Egitto, anno 1952. La nascita di un nuovo profeta sta per sconvolgere i destini della nazione. La famiglia dei Karinakis, all’interno della quale il fanciullo vede la luce, assiste al suo avvento tra premonizioni, vaticini e un'incrollabile passione per la politica. Prende così l’avvio Il quaderno di Kavafis (Jouvence, 2020, pp. 432, anche e-book) di Marco Alloni, romanzo irriverente e sorprendente, di volta in volta comico, tragico e grottesco. Un romanzo in cui si dispiegano cento anni di storia egiziana, dal 1952 a un ideale 2049, disegnando i contorni del più grande sogno a cui l'Egitto abbia mai aderito: quello di una giustizia sociale dove finalmente l'uomo possa ritrovare dignità e uguaglianza rispetto ai propri simili. Un sogno che nel libro di Alloni è anche un invito universale a prendere coscienza della possibile Apocalisse a cui il sistema capitalistico ci sta esponendo. Ma perché il capitalismo non è più una alternativa percorribile? Lo chiediamo direttamente a Marco Alloni:

"Perché nel suo codice genetico vi è l'idea di sopraffazione. Di solito si sostituisce alla parola 'sopraffazione' il termine 'competitività'. Ma è un inganno retorico. In realtà il principio che sottende il capitalismo è quello del dominio sull’altro, e come ogni dominio indiscriminato – il dominio di chi detiene i mezzi di produzione contro chi ne è al servizio – anche il dominio capitalistico è destinato a implodere. Nel romanzo Il quaderno di Kavafis tale prefigurazione del collasso del capitalismo è espressa nel capitolo finale, dove si prende atto di uno scenario altamente possibile".

Quale scenario?

"La sollevazione di milioni di indigenti contro le classi al potere. Uno scenario che io esprimo in forma di romanzo, ma che la realtà comincia a mostrarci con sempre maggiore evidenza. Il capitalismo non è pertanto una alternativa percorribile: nel breve e medio termine produce un’illusione di benessere e libertà per tutti che ne fa una sorta di modello insostituibile, ma nel lungo termine si trasformerà in una tensione fra ricchi e poveri che non potrà in nessun modo essere arginata".

Rischiamo una guerra totale tra ricchi e poveri del pianeta?

"Naturalmente questa è la grande provocazione del romanzo. Personalmente non vedo chi altro potrebbe però salvarci se non un profeta. Il mondo stenta ad accorgersene, ma la letteratura no: se non poniamo un limite radicale all’ingiustizia prodotta dal dominio capitalistico, la sola risposta non violenta a tale cultura del sopruso potrà venire soltanto da un redentore. In caso contrario il solo scenario che si può prospettare è quello del terrorismo su scala planetaria. Non un terrorismo organizzato intorno a questa o quella ideologia laica o religiosa, ma un terrorismo fondato su una primaria rivendicazione di giustizia sociale. Quindi si tratta di decidere se giocare la carta dell’utopia, come fa Il quaderno di Kavafis, o rassegnarsi all’esistente. Personalmente penso che la letteratura debba ancora giocare la carta dell’utopia: se non altro per scongiurare l’orizzonte di quella che a più riprese chiamo nel libro Apocalisse".

Che tipo di profeta è quello del suo libro?

"Nel risvolto di copertina se ne dà una definizione precisa: è un profeta che unisce il messaggio messianico – qualunque profeta storico abbia incarnato tale ruolo – al messaggio marxista. Un profeta a cui il problema di appartenere a una religione o a un’ideologia non importa nulla, mentre alla necessità di porre l’uomo al centro della propria missione importa sommamente. Un profeta che opera in funzione di una salvezza al di qua, non in vista di eventuali riscatti ultraterreni. In questo senso credo che Zahannad, il profeta del Quaderno di Kavafis, rappresenti una sorta di uomo ideale per quanto a sensibilità rispetto ai problemi del tempo in cui viviamo. Si presenta come una delle espressioni più classiche del comunista, ma anche come una delle incarnazioni più estreme del redentore tradizionale. Se riesce a coniugare queste apparenti antinomie è perché è perfettamente convinto che lo scopo supremo di Dio è quello di realizzare una giustizia in terra: un obiettivo che ricongiunge, al sommo di ogni possibile discorso escatologico, tanto le aspirazioni di Marx quanto i sogni di qualsiasi messia".

Il libro di apre con le parole di José Saramago: "L'alternativa al neoliberismo si chiama coscienza". Ma è veramente così?

"La frase di José Saramago credo illustri perfettamente il senso del Quaderno di Kavafis. Sì, penso sia così. Annientare i poveri in nome dei privilegi dei ricchi è incoscienza, devastare il pianeta in nome dell’accumulazione di beni superflui è incoscienza, abusare del potere economico per determinare i destini politici e sociali di interi popoli è incoscienza, ritenere che il solo valore a cui attribuire sacralità sia il denaro è a sua volta incoscienza. Sì, l’alternativa al neoliberismo è la coscienza. Coscienza che questo tipo di progresso umano non è in definitiva altro che un regresso alle ragioni della bestialità animale, al suo ancestrale istinto alla sopraffazione".

Perché la scelta dell'Egitto come fulcro del suo libro?

"Perché l’Egitto è il paese dove vivo da oltre vent’anni. Ma soprattutto perché il futuro del mondo sarà deciso dal modo in cui l’Occidente deciderà di rapportarsi al Terzo Mondo. Se il Terzo Mondo non diventerà una risorsa invece di una minaccia, come ci hanno abituati a pensare, il futuro dell’Occidente sarà segnato. Nello stesso modo, senza una salvezza del Terzo Mondo, non ci sarà nemmeno una salvezza per l’Occidente. E l’unica prospettiva che si affaccerà sarà appunto quella apocalittica. Forse sono drastico, me ne rendo conto. Ma osservando la miseria tutti i giorni non posso fingere che questa sia una fatalità".
© Riproduzione riservata