Nella città della Bosnia di Srebrenica, nel 1995, venne scritta una delle pagine più nere della storia europea recente. Migliaia di musulmani bosniaci furono, infatti, massacrati dalle milizie serbe, sotto gli occhi delle truppe della Nazioni Unite che avrebbero dovuto presidiare la città e nell’indifferenza dei governi occidentali.

Greta, però, è una ragazza dei nostri giorni. Non sa nulla di quel massacro per lei lontano. Nata a Milano, è concentrata sulla scuola e sul nuoto, in cui eccelle. Eppure, la Bosnia e in particolare Srebrenica sono parte della sua storia perché metà della sua famiglia viene da lì. Nonostante questo, Greta non conosce praticamente dell’infanzia di suo padre Edin, delle intere giornate che ha passato, lui musulmano, a giocare nei boschi con Goran, l’inseparabile amico serbo. E non sa nulla di come quella amicizia ha dovuto fare i conti con gli odi che avevano cominciato a dividere i bosgnacchi (i bosniaci musulmani) dai serbi. Dal passato, però, non si può sfuggire, e così Greta si ritrova a scavare nella storia della sua famiglia. E per farlo, deve tornare nel luogo dove tutto è cominciato: Srebrenica, la città d’argento.

Incentrato sull’episodio più crudele delle guerre che sconvolsero la ex Jugoslavia negli anni Novanta del Novecento, Città d’argento (Rizzoli, 2020, pp. 250, anche e-book) è un romanzo che ci costringe a non dimenticare mai dove può portare la paura e l’odio nei confronti del diverso.

All'autore, Marco Erba, chiediamo come è nata la scelta di raccontare in un libro per ragazzi una vicenda tanto drammatica come quella di Srebrenica.

"È nata dal fatto che nei miei viaggi in Bosnia, iniziati grazie a un collega che conosce benissimo quella terra, ho incontrato persone meravigliose. Penso a Sena, di cui parlo nel romanzo: una donna musulmana che durante l’assedio di Sarajevo ha perso il figlio adolescente, ucciso da un cecchino dell’esercito serbo. Eppure, Sena dopo la guerra ha aperto un locale e ha assunto come primo dipendente un ragazzo serbo che durante la guerra faceva il cecchino. Sena mi ha detto: ‘Tante volte noi parliamo di giustizia, ma mascheriamo così il nostro desiderio di vendetta. La giustizia non tocca a noi farla: noi possiamo scegliere se odiare e distruggere o se perdonare e costruire un futuro diverso’. Ma penso anche a Dubravcka, che ha vissuto nella Sarajevo assediata con il figlio piccolissimo e che, guardandomi negli occhi, mi ha detto: 'Io non odio nessuno, perché vivere in un assedio significa stare in una prigione a cielo aperto, e dopo quell’esperienza non permetto più a niente di imprigionarmi, nemmeno al mio odio'".

Parole meravigliose, ma che non nascondono la crudeltà di quello che accadde...

"Si, parole meravigliose per una realtà crudele, ma che volevo raccontare ai ragazzi e agli adulti. Quando mi sono trovato a dover scegliere, ho deciso di raccontare il genocidio di Srebrenica, dove sono stato due volte. Vedere il cimitero musulmano, tutte quelle stele bianche sulla collina, toglie il fiato. È un luogo in cui tutti dovrebbero andare. Srebrenica e quelle persone, più di ottomila, uccise in pochi giorni, mostrano concretamente le conseguenze dell’odio. E l’odio fa parte del vissuto di noi tutti. Ma non ha per forza l’ultima parola, si può vincere. È questo che ho cercato di raccontare nel libro".

Lei è un insegnante. Nella sua esperienza, cosa sanno i ragazzi di tragedie come quella della ex Jugoslavia, tragedie in fondo neppure tanto lontane nel tempo?

"Molto poco, anzi quasi nulla. Eppure, conoscere quello che è successo in Bosnia è fondamentale. Non è vero che la storia non si ripete: durante la guerra in Bosnia ci sono state torture, campi di concentramento, pulizia etnica, stupri etnici. Il peggio del passato d’Europa è riemerso. Bisogna studiare quei fatti, per capire che il futuro dipende da noi. Tutti i bosniaci con cui ho parlato mi hanno detto che una guerra in quel paese multietnico, con moltissimi matrimoni misti, era impensabile fino a quanto è scoppiata. Eppure, è successo. Soffiare sul fuoco del nazionalismo è pericoloso, giocare con la paura del diverso per fini propagandistici è una follia. Un amico bosniaco mi ha detto che è come giocare coi fiammiferi: all’inizio il fuoco è insignificante, ma, se si appicca a una tenda, la casa è distrutta tutta in pochi minuti. In Bosnia è andata così".

Come è vissuta dalle giovani generazioni la diversità, l'incontro con l'altro?

"Sia come una risorsa, sia come una fatica. Parlando con gli studenti, leggendo i loro temi, scopro talvolta episodi sconcertanti di razzismo. Un’allieva mi ha raccontato di un’amica cinese schiaffeggiata al parco perché accusata di diffondere il Covid, un’altra di un’amica umiliata perché centroafricana. Il razzismo non è certo la normalità, ma il problema esiste. Però la convivenza è una realtà: i ragazzi, quando crescono senza pregiudizi, spesso non si pongono nemmeno il problema della differenza etnica. La Bosnia è una terra straordinaria anche per questo: si vedono adolescenti in minigonna che chiacchierano nei locali con amiche velate, si passeggia in città nelle quali moschee, basiliche ortodosse e cattedrali cattoliche sorgono a poche centinaia di metri".

Non crede che in alcuni casi ci sia diffidenza verso la multiculturalità paradossalmente perché se ne raccontano solo gli estremi: gli aspetti totalmente positivi, oppure totalmente negativi. Non si narra invece la zona grigia, la difficoltà di conoscersi e capirsi, la disponibilità che è necessaria per mettersi in gioco?

"Assolutamente sì. Dino, che ha vissuto la guerra in Bosnia da ragazzo, mi ha detto così: ‘Quando un politico parla alla testa, fidati. Quando parla al cuore, comincia ad essere cauto. Ma quando parla alla pancia, smetti immediatamente di ascoltarlo: è pericoloso!’ Chi enfatizza i fatti di cronaca nera è un irresponsabile. Ma fa lo stesso gioco chi racconta un idillio inesistente. Quello che è utile è prendere coscienza della realtà, far leva sulla responsabilità. Ogni incontro può essere uno scontro, ma può anche essere un arricchimento. Dipende da noi. Sono convinto, da professore di lettere e da scrittore, che gli slogan non aiutino: sono molto più utili le storie, attraverso le quali si incontrano volti e persone concrete. Per questo ho scritto Città d’argento".
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