Anno 2047: il mondo è caratterizzato ancora più di oggi da una tecnologia onnipresente e da un clima imprevedibile. La scienza però ha lavorato molto per rendere la vita più sicura e priva di imprevisti. Per esempio, ha individuato il gene C come responsabile della violenza dei comportamenti. Quindi l'essere criminali è inscritto nel Dna delle persone fin dal concepimento. Grazie alla diagnosi precoce e a un ferreo controllo delle nascite imposto dalla legge attraverso la legge Genesi, la società è quindi ormai pacificata.

Alla scoperta del gene C ha contribuito da giovanissima la scienziata Elisabetta Russo, che non ha mai avuto dubbi sulla bontà delle pratiche di selezione genetica del governo, nonostante le proteste degli oppositori. A venticinque anni dall'entrata in vigore della legge Genesi, però, le sue certezze vengono scosse da alcuni avvenimenti drammatici, da esperienze inattese e dall'incontro con un giovane, Lionel, con cui Elisabetta assapora per la prima volta l’amore, il piacere di sentirsi veramente liberi, il disagio per una società dove tutto appare programmato e sterilizzato.

L’attore e scrittore Tony Laudadio ci offre con il suo ultimo lavoro, Il blu delle rose (NNEditore, 2020, pp. 272, anche e-book), un romanzo distopico ma anche ricco di speranza, un romanzo ambientato in un futuro che ha molto in comune con il nostro presente. Come prima cosa gli chiediamo allora cosa lega il nostro mondo a quello in cui vive Elisabetta Russo...quali sono gli elementi di contiguità?

"I due mondi non sono diversi, anche se ci sono state delle evidenti evoluzioni, quasi una rivoluzione. Tuttavia, ancora l’uomo domina (o crede di dominare) la natura e il territorio, ancora si crea una morale adatta ai propri tempi e ai costumi, ancora la tecnologia in sé sembra avere più importanza dello scopo per cui viene costruita. Poi ci sono i legami: legami che ci sembrano condanne e legami per i quali saremmo anche disposti a morire. L’elemento umano è il tratto di contiguità tra il nostro presente e il futuro narrato nel libro, l’elemento umano con le sue meraviglie e le sue miserie".

Perché, a suo parere, oggi si tende tanto spesso a ricercare la perfezione a tutti i costi?

“La perfezione è inattaccabile, uno scudo, un cerchio confortevole di sicurezza, è un piedistallo su cui elevarci e da cui poter guardare e giudicare, per cui la cerchiamo a tutti i costi. Non ci rendiamo conto, però, di quanto sia un concetto assurdo, in una cornice storica in continua e rapidissima evoluzione. Quello che è perfetto un momento, è già orribile l’attimo dopo e non esiste ancora la possibilità di fermare il tempo e le opinioni. Sembrerà impopolare ma, probabilmente, c’è un eccesso di condivisione”.

In che senso?

“Nel senso che tutto viene comunicato, trasmesso agli altri, cercando conferme all’esterno di sé, forse per insicurezza. Manca il mistero che fa nascere la curiosità. Ci si espone, contando sull’idea che la quantità di persone che ci risponde sia un fattore di successo, di affermazione, salvo poi doverne accettare l’enorme mole di commenti e ferocia. Da qui il desiderio di essere perfetti e inattaccabili, da qui nasce la paura dell’imperfezione”.

Perché si ha tanta paura dell’imprevedibilità?

“La paura è un sentimento che ci accompagna ad ogni passo e pur essendo spesso legato a ciò che non conosciamo - la paura ancestrale del buio che si riflette in mille dinamiche diverse, per fare un esempio - non si esaurisce nell’imprevedibile. Si ha paura a prescindere, a volte si ha persino paura di avere paura. Credo sia un riflesso dell’istinto di sopravvivenza, quella condizione costante di diffidenza che hanno le prede nei loro habitat: la volontà di salvarsi, la voglia di vita. E anche se noi umani abbiamo decisamente superato i rischi più evidenti e immediati, la paura del predatore dietro l’angolo ci accompagna sempre”.

Siamo veramente disposti a rinunciare alla libertà in nome della comodità e della sicurezza?

“Certamente. Non c’è bisogno di andare avanti nel tempo, di arrivare al mondo futuro del mio libro per capirlo. È come se pensassimo di essere liberi proprio perché c’è quella sicurezza e quella comodità. Non sentiamo il peso della rinuncia perché non ricordiamo neanche più cosa significasse sentirsi liberi e in effetti abbiamo sempre avuto, come umanità, una libertà relativa al nostro tempo. A volte ci appare per un attimo, quell’emozione di libertà: quando perdiamo il telefonino, quando siamo in mezzo al mare o su una montagna, quando facciamo l’amore all’improvviso. Ma subito dopo torniamo a quella specie di sicurezza che definiamo libertà, il relativo di questa epoca”.

Cosa possiamo fare per non ritrovarci in un futuro come quello in cui è ambientato il suo romanzo?

“La tecnica, la tecnologia sono un mezzo per renderci migliori. Attenzione: migliori, non più liberi, più veloci, più sicuri. Dico migliori, e in questa parola generica, eppure a tutti immediatamente comprensibile, c’è un sottinteso di verità su cui non c’è bisogno di indugiare troppo. Dovremmo imparare ad esercitare il desiderio reale di capire gli altri, l’istinto empatico che ci mette in comunicazione reale, senza secondi fini, senza mirare all’affermazione di sé a tutti i costi. Questa consapevolezza, l’esercizio dell’empatia, ci vengono dalla pratica quotidiana: i libri che ci danno l’educazione sentimentale, la musica che ci mette in contatto con lo spirituale, l’arte in genere che apre alla bellezza e minimizza la meschinità. Il fine non deve però confondersi con il mezzo”.
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