Da anni Franco Arminio viaggia e scrive e osserva. Ricerca la meraviglia che ci circonda e che spesso non vediamo e si spende in difesa dei piccoli paesi, frequentemente dimenticati. È, infatti, ispiratore e punto di riferimento di molte azioni contro lo spopolamento dell'Italia interna, ma è soprattutto un poeta e un fine osservatore di ciò che lo circonda. Nel suo percorrere palmo a palmo il nostro Paese e nel suo costante ascolto del mondo, Arminio già da tempo aveva colto il dilagare di un'epidemia ancora più pericolosa di quella legata al Coronavirus, perché sostanzialmente ignorata: l'epidemia dell'"autismo corale", che ci vede tutti rinchiusi dietro i nostri piccoli schermi, impegnati in una comunicazione che ha perso ardore e vitalità. Con il suo ultimo libro La cura dello sguardo (Bompiani, 2020, pp. 208, anche e-book) prova allora a suggerire dei consigli, dei piccoli precetti alla buona, fatti in casa per ritrovare quella capacità di comunicare, di essere comunità che sembriamo aver perduto. Come un antico speziale Arminio ha mescolato nel suo libro gli ingredienti della sua sapienza poetica per restituirci la fiducia nella capacità delle parole di unire i nostri sguardi e i nostri cuori. A Franco Arminio proviamo allora a chiedere come dobbiamo interpretare il titolo del suo libro, La cura dello sguardo. È lo sguardo che cura oppure siamo noi che dobbiamo curare la nostra capacità di guardare, cioè dobbiamo imparare a osservare meglio:

"Entrambe le cose. Prima di tutto: abbiamo scuole che insegnano a ballare, cantare, ma nessuna ti insegna a guardare. Così tutti hanno lo smartphone, fanno foto e il risultato è spesso pessimo perché non sappiamo guardare nel modo giusto. Non siamo abituati ad osservare, a cogliere i cambiamenti e le sfumature. Ogni volta che andiamo in ufficio il mondo attorno a noi muta, muta la luce, mutano i colori ma non lo cogliamo. E quindi non ci rendiamo conto che l’attenzione al mondo esterno è già di per sé terapeutica. Il mondo che ci circonda è una grande farmacia a cui possiamo attingere liberamente e in maniera gratuita. E in maniera ecologica perché guardare il cielo, un albero è un gesto che fa bene ma non inquina".

Possiamo dire che guardare ci aiuta a non consumare?

"Esatto, guardare non consuma. Ammiri, osservi, ne trai godimento, piacere, benessere e non crei alcun danno al mondo che ti circonda".

Il verbo guardare lo possiamo allora considerare antitetico a possedere?

"L'uomo si è spesso comportato come se il mondo fosse una grande cava in cui scavare per trovare quello che serve. Però più si scava, più si trova, più si possiede, più ci si rende conto che non si è raggiunta la felicità. Il possesso alla fine non riempie quel senso di vuoto che abbiamo nel cuore. Quel vuoto allora spinge a possedere sempre di più. È un po’ la storia dell’ultimo periodo della storia occidentale e dell’ultima fase del capitalismo. Guardare, viceversa, ci può aiutare ad andare oltre a questa concezione tipicamente capitalista del nostro rapporto con il mondo. Ecco nel mio libro parlo di queste cose…in maniera pacata, poetica, con un linguaggio a tratti religioso che però vuole arrivare a dare un messaggio politico".

Ma non c’è troppa disabitudine al bello, una sorta di analfabetismo estetico per poter guardare il mondo?

"In realtà sotto certi aspetti oggi c’è una nuova percezione del bello. Pensiamo all’entroterra sardo, alla Barbagia oppure all’Aspromonte o a Matera. Un secolo fa non venivano considerati luoghi belli, mentre oggi sì. Quindi qualcosa di nuovo c’è sul fronte della percezione della bellezza. Poi è vero che alla maggior parte delle persone non interessa nulla né degli Uffizi, né della Barbagia e questo è tragico".

Si può fare qualcosa per educare al bello?

"Un passo secondo me importante è allargare ancora di più quel canone di bellezza che ci ha portato ad apprezzare anche luoghi prima misconosciuti. Un paese spopolato della Sardegna, per fare un esempio, può non avere l’architettura di San Giminiano però ha una sua bellezza, una sua aura, un’atmosfera particolare che ritrovi solo lì. È quello che io chiamo il ‘turismo della clemenza’, alla riscoperta della bellezza povera, non vista, non riconosciuta. Ci vorrebbe poi una scuola non solo per insegnare a guardare, ma per fare capire cosa è bello. Però segnali positivi, ripeto, ce ne sono. I grandi scempi a cui abbiamo assistito nell’Italia del Dopoguerra oggi sono impossibili a ripetersi e già questo è una grande risultato".

Nel sottotitolo, il suo libro viene definito "nuova farmacia poetica". In che modo dobbiamo intendere il termine "farmacia"?

"Non nel senso moderno del termine. Nel libro sono molto critico nei confronti della medicina e della farmacologia contemporanea ma non perché ce l’ho con i medici, con i farmaci, con i vaccini e via dicendo. Sono critico nei confronti degli eccessi a cui assistiamo. Sono critico nei confronti delle continue diagnosi che cercano a tutti i costi una malattia da curare con farmaci e cure costose. Prima di tutto le persone si devono curare con le passioni, con l’amore, non andando continuamente dal medico. Per stare bene, la mattina appena sveglio devo poter fare le cose che mi piacciono, possibilmente assieme ad altre persone. Se poi mi rompo una gamba o proprio sto male andrò dal medico…ma non deve essere la mia prima preoccupazione appena alzato. Altrimenti non si vive più o si vive male".

La sua è una farmacia poetica. Ma abbiamo ancora bisogno di poesia?

"Di poesia abbiamo bisogno come non mai perché viviamo in un’epoca di disorientamento, di ricerca di senso. Abbiamo bisogno di una poesia che si capisca, che parli di cose reali, che sappia parlare alle persone. E la poesia dovrebbe godere di devozione, di considerazione perché chi frequenta la poesia è sempre uno spirito vivo, vivace, libero, capace di guardare al mondo in maniera critica. La poesia ispira senso di libertà, una cosa di cui abbiamo bisogno di questi tempi. Per questo il potere non ama i poeti perché agli spiriti liberi preferisce i consumatori o i sudditi".
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