E’ l’autrice di uno slogan politico potente, pieno di moderno appeal identitario nonostante siano passati oltre 150 anni. “Torramus a su connottu”, aveva gridato Paskedda Zau capeggiando con rabbia una rivolta storica contro la privatizzazione delle terre comunali a Nuoro. Poi su di lei è sceso l’oblio, per un lungo tempo. E’ stata riabilitata in anni recenti come un’eroina capace di parlare al mondo d’oggi: lei, donna umile e povera, con dieci figli da accudire, rimasta senza le terre pubbliche per tirare a campare, aveva sfidato i potenti guidando l’assalto al municipio. E’ una storia affascinante, perfino mitica, riscoperta grazie a un’associazione molto dinamica che porta il suo nome. Per tre anni di fila sulle strade di Nuoro, le stesse percorse da Paskedda, ha proposto una rappresentazione coinvolgente, tra il pathos degli interpreti e l’ammirazione degli spettatori. Il coronavirus ha fermato la quarta edizione, anche se l’associazione non si arrende. Ha curato pubblicazioni, organizzato convegni e proposto con successo l’intitolazione di una piazza a Paskedda, idea poi adottata dal Comune. Così ora quella popolana ha una targa tutta per sé, davanti all’antico municipio di Nuoro, che fu teatro dell’insurrezione.

L’appuntamento con la rappresentazione era il 26 aprile per fare memoria di una vicenda che porta lontano, alla stessa giornata del 1868. Era una domenica mattina. Paskedda Zau non era più giovane, aveva 60 anni, era vedova e piena di pensieri perché le terre pubbliche che davano sostegno a gente come lei erano diventate private. Ma non si rassegnava a perdere quel diritto vitale che garantiva a tutti la sussistenza. Così ha tirato fuori tutta la rabbia che il nuovo corso della storia le aveva scatenato dentro. A vent’anni Paskedda Selis s’era sposata con Bobore Ghisu, soprannominato Zau perché era alto ed esile come un chiodo, zau appunto, in nuorese. Quell’epiteto resterà addosso anche alla moglie. In 28 anni di matrimonio arrivarono dieci figli. Tempi difficili, complicati poi dalla vedovanza. Tirava avanti con poche capre, un po’ di maiali e qualche orto. Una quotidianità faticosa, comunque accettata. Poi l’ordine di sgomberare le terre ademprivili diventate d’altri, ormai libere dai secolari usi civici, ha messo in crisi lei e tante altre famiglie. La sua rabbia esplose all’uscita delle donne dalla Cattedrale dopo la messa di quella domenica del 26 aprile 1868. Gridava “Torramus a su connottu” reclamando diritti e consuetudini consolidate in quelle terre che assicuravano, in modo gratuito, ghiandatico, legnatico, acqua. Invocava il ritorno al sistema di gestione già noto, appunto “su connottu”. Riuscì così a riunire attorno a sé altri poveri con il loro malcontento per la vendita del salto di Sa Serra. Sostenuta dalla figlia Tonia mise assieme 300 persone guidandole con una bandiera improvvisata, fatta in fretta e furia utilizzando la sua sottogonna. Andarono dritte a palazzo Martoni, sede del municipio, nel quartiere storico di San Pietro, e vi entrarono con forza. Lei, indomabile, schiaffeggiava i carabinieri che tentavano di calmarla. Aveva messo le mani sui documenti dell’archivio legati alle vendite delle terre, li aveva strappati a morsi e poi bruciati. Quella rivolta memorabile portò in carcere lei e altre 68 persone, tutte accusate di aver provocato tafferugli e devastazioni. Rimasero in cella per mesi, fino al 5 novembre 1868 quando un’amnistia, con decreto regio firmato da Vittorio Emanuele II, restituì a tutti la libertà. Arrivò grazie all’intervento del deputato di Bitti, Giorgio Asproni, che sollecitò clemenza al ministro di Grazia e giustizia. Sulla vicenda fu istituita una commissione parlamentare d’indagine, sollecitata dallo stesso Asproni e presieduta da Agostino Depretis. Finì con un nulla di fatto. Nel 1872 le terre contestate furono definitivamente privatizzate. Un passaggio che sancì il fallimento dell’insurrezione. Paskedda morì 14 anni dopo la rivolta, prima di compiere i 74 anni, in miseria, come aveva vissuto. Venne poi dimenticata nonostante il suo grido di dolore diventasse nel tempo uno slogan di straripante richiamo, consacrato come indiscusso patrimonio identitario.

“Paskedda è l’emblema non solo di una reazione dettata dalla fame, ma di tante donne forti che per difendere i figli e la dignità hanno combattuto con i denti. Io ho conosciuto donne simili nel quartiere di San Pietro. E’ una figura che affascina, il simbolo delle donne barbaricine”, dice Angela Cerina. Lei è la presidente dell’associazione Paskedda Zau che ha un obiettivo importante: il recupero di palazzo Martoni, il vecchio municipio da tempo in abbandono, ormai monco del tetto. “Per noi è una buona idea, la città avrebbe un luogo di studio e di testimonianza”.
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