Margherita la guardava di sbieco. Giudicava la moglie di Vittorio Emanuele per nulla raffinata e inorridiva - lei che dopo la morte di Umberto aveva lasciato la reggia del Quirinale e si era trasferita a Palazzo Boncompagni Ludovisi - per "le manie borghesi" della nuora che aveva ridotto la servitù, dato via molti dei lussuosi arredi della residenza reale e soprattutto allevava le figlie "come massaie, non come principesse". Ma in quell'ultimo scorcio del 1900, con il figlio ch'era salito al trono a fine luglio e la nuora ch'era divenuta sovrana d'Italia, la regina madre non poteva immaginare quanta ammirazione e gratitudine, di lì a qualche anno, l'Italia intera avrebbe tributato a colei che adesso portava il diadema di Casa Savoia.

Elena del Montenegro, sovrana d'Italia per 46 anni, è stata senza dubbio la prima regina di cuori, empatica e diretta, sensibile alle sofferenze delle classi più povere e sempre presente là dove poteva portare conforto. In questi tempi di emergenza sanitaria, adesso che sentiamo parlare di edifici convertiti a corsie per i letti dei malati e assistiamo all'allestimento di ospedali da campo come nei tempi di guerra e di grandi disastri naturali, val la pena ricordare di quando il palazzo del Quirinale fu riadattato per accogliere e curare i militari di truppa feriti e mutilati. Anno 1915.

L'Italia era entrata in guerra il 23 maggio al fianco di Francia, Inghilterra e Russia contro l'Austria (più tardi, ad agosto, si schiererà anche contro la Germania). Due giorni dopo il re era già in partenza per il Friuli dove, esattamente vicino a Udine, aveva stabilito il suo quartier generale. Vittorio Emanuele III consolidò in quegli anni il mito del "re soldato": innamoratissimo della moglie la vedrà comunque ben poche volte negli anni che seguirono, sino alla fine del conflitto. Elena, dal canto suo, non stette ad aspettarlo con le mani in mano. Di che pasta era fatta ne aveva già dato prova anni prima, all'indomani del terremoto di Messina, il più disastroso che la Storia ricordi. La mattina del 28 dicembre 1908 la città fu rasa al suolo dalle onde telluriche di una potenza pari a 10 gradi della scala Mercalli. Tra la città siciliana e l'altra costa dello Stretto, Reggio Calabria e i territori vicini, morirono 100mila persone. Ovunque cumuli di macerie e disperazione. Famiglie intere furono annientate.

Il re e la regina partirono per Messina il giorno dopo il sisma e vi arrivarono il 30. Subito lei organizzò un ospedale per curare i superstiti a bordo della nave corazzata Regina Elena, della Regia Marina, occupandosi personalmente di tanti feriti. Il Corriere della Sera intervistava i soccorritori che raccontavano della regina d'Italia impegnata nelle ricerche dei sopravvissuti, in mezzo alle macerie, senza curarsi dei crolli. Persino Edoardo Scarfoglio, che anni prima aveva sbeffeggiato la semplicità della cerimonia di matrimonio tra Vittorio Emanuele ed Elena - sul Mattino le aveva definite "Nozze coi fichi secchi" - adesso si sperticava in lodi, dichiarando tutta la sua ammirazione per la sovrana.

E venne dunque la guerra. Elena aveva allestito già da tempo, dentro al Quirinale, un laboratorio per la confezione di vestiario che destinava alle famiglie povere. Ma il 3 agosto 1915 tutto il palazzo che dal 1871, con Vittorio Emanuele II, era la reggia di Casa Savoia e che per trecento anni era stato residenza papale, divenne ufficialmente Ospedale territoriale Numero 1 con 275 posti letto. La regina, che aveva personalmente seguito i lavori per rendere gli ambienti quanto più confortevoli, igienici e moderni, volle destinarlo esclusivamente ai militari di truppa, i soldati figli del popolo, feriti e mutilati. (Agli ufficiali ci avrebbe pensato dopo la regina madre che, anche per non farsi oscurare dal prestigio sempre crescente della nuora, inaugurò a Villa Margherita l'Ospedale militare Numero 2). Niente più specchi e arazzi e tappeti: il pavimento del Quirinale fu coperto dal linoleum e le pareti dalla carta bianca lucida. I saloni - compresi quelli da ballo e dei corazzieri - erano diventati corsie dove i medici, le infermiere e le suore andavano e venivano fra i degenti. I servizi igienici, il reparto di radiologia, la grande sala dell'elioterapia (dove venivano accolti i pazienti che non potevano scendere in giardino): tutto era organizzato secondo criteri modernissimi.

Elena sapeva che l'aspetto psicologico del paziente è determinante in un percorso di cura. Organizzò, dunque, anche l'assistenza morale dei soldati feriti e mutilati: a loro disposizione c'era una biblioteca di 750 volumi, giornali e riviste, conferenze e corsi di musica, laboratori di ogni genere, spettacoli teatrali. Ad aprile del 1919 - sei mesi dopo la fine della guerra - l'Ospedale Militare Numero 1 venne chiuso: nei quattro anni del conflitto aveva curato 2.648 feriti, tra questi 1.831 grandi invalidi. Tanti tra loro, negli anni seguenti raccontarono della "regina infermiera" che si fermava al capezzale dei malati più gravi, spesso tenendo la mano ai moribondi, e di come il direttore dell'ospedale dovesse tenerla sempre informata dell'eventuale aggravamento delle condizioni di qualcuno tra i soldati. Da ragazza, Elena aveva seguito lezioni di pronto soccorso allo Smolny, il prestigioso collegio di San Pietroburgo per signorine nobili, e per tutta la vita mise in pratica ciò che aveva imparato. Studiava medicina con passione (tanti anni più tardi, nel 1941, l'Università di Roma le assegnò la laurea ad honorem) e, non a caso, dal 1911 al 1921 fu la prima ispettrice nazionale della infermiere volontarie della Croce Rossa Italiana. Credeva fermamente, e lo dichiarò in più d'una occasione, che l'assistenza ai malati non dovesse essere delegata solo alle suore e alle volontarie senza alcuna formazione. «Servono professioniste preparate», diceva. Per questo nel 1910 fondò al policlinico di Roma la Scuola Regina Elena per infermiere che accolse subito cinquanta allieve.
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