Elena Mesina aveva 23 anni quando nell'ottobre del 1919 arrivò a Lula con una piccola valigia piena di libri e di speranza. Nuorese di famiglia benestante, era una ragazza di fine bellezza e di robusta cultura modellata con gli studi di maestra, al tempo unica chance di emancipazione per le donne.

La direzione scolastica l'aveva destinata al piccolo paese del Montalbo e lei accolse quel trasferimento col sollievo di chi ha l'occasione per sfuggire a un pericolo. L'anno prima aveva insegnato a Lollove dove un signorotto, un vedovo tanto ricco quanto villano, le faceva una corte opprimente. Pensò che con la lontananza, finalmente, si sarebbe rassegnato a lasciarla in pace. Quanto si sbagliasse, neanche noi adesso possiamo immaginarlo.

Questa è una storia che andrebbe ricordata, una delle tante vicende che raccontano il difficile percorso delle donne verso l'emancipazione.

Tra la fine dell'Ottocento e i primi decenni del Novecento l'insegnamento nelle scuole elementari era per le ragazze uno dei pochissimi sbocchi lavorativi. Così migliaia di giovani donne in tutta Italia, appartenenti alla piccola borghesia ma anche alle classi più umili, riuscivano ad avere un'indipendenza economica e soprattutto ad affrancarsi dalla famiglia. Lo stipendio, va ricordato, era poco meno di un terzo rispetto a quello dei colleghi uomini, e per di più si veniva destinate a piccoli paesi dove le aule erano malsane e le classi - quando non si doveva combattere perché le famiglie mandassero i bambini a lezione - composte da quaranta, cinquanta alunni. Si riusciva però a conquistare un'indipendenza impensabile al tempo per una donna: poco più che ventenni, da sole, senza marito, ci si trasferiva in un altro paese, lontano dalla propria famiglia. In questa nuova condizione, le regole di moralità e di comportamento - al tempo rigidissime, soprattutto per le ragazze non maritate - finirono per diventare un'arma a doppio taglio per tante maestre avviate lungo il periglioso cammino dell'affermazione di sé.

Sono tantissime le storie di giovani insegnanti uccise, violentate o licenziate per aver rifiutato le avance di certi uomini convinti di poterne approfittare. La più conosciuta, poiché raccontata anche da Matilde Serao in un'inchiesta sul Corriere di Roma, è la storia di Italia Donati, maestra toscana ventenne che nel 1886 si tolse la vita dopo tre anni di tormento, perseguitata dalle voci alimentate dal sindaco di Porciano, il suo datore di lavoro. Solo nel 1911 la legge Daneo-Credaro avrebbe trasferito alla competenza statale l'istruzione primaria, ma negli anni dopo l'Unità d'Italia i responsabili erano i Comuni: a partire dal 1877, infatti, la legge Coppino obbligava le amministrazioni a istituire una scuola anche nelle frazioni più popolose.

Erano i sindaci, dunque, ad assumere le maestre, e i sindaci non sempre erano gentiluomini. Insomma, Italia dovette difendersi dalle malelingue che l'accusavano di essere l'amante del sindaco e poi, quando al procuratore del Re di Pistoria arrivò una lettera anonima, le toccò discolparsi dall'imputazione di aborto. Riuscì comunque a trovare lavoro in un'altra scuola, a Cecina, ma anche lì fu subito presa di mira dalle lettere anonime, dai pettegolezzi e dallo scherno. Aveva 23 anni quando decise che una vita così non valeva più la pena di essere vissuta. La sera del 31 maggio 1886 scrisse un biglietto per i genitori e uno per il fratello Italiano, camminò fino alla gora del mulino ad acqua sul fiume Rimaggio, fuori dal paese, salì sul muretto del ponte e si levò in volo. Venne ritrovata con le gonne strette attorno alle gambe: le aveva fissate con una spilla da balia perché non poteva sopportare l'idea che qualcuno vedesse la sua carne nuda. "Sono innocentissima di tutte le accuse fattemi e la prova l'avrai, come l'avranno tutti, dopo la mia morte - aveva scritto nel biglietto lasciato a Italiano -. A te, mio unico fratello, a te mi raccomando con tutto il cuore, e a mani giunte, di fare quello che occorrerà per far risorgere l'onore mio. Non ti spaventi la mia morte, ma ti tranquillizzi pensando che con quella ritorna l'onore della nostra famiglia. Prendi il mio corpo cadavere, e dietro sezione e visita medico-sanitaria fai luce a questo mistero. Sia la mia innocenza giustificata". L'autopsia, questo lo raccontiamo solo per dovere di cronaca, certificò la sua illibatezza. Poco più di trent'anni dopo, nulla era cambiato per le giovani insegnanti. Anno 1919, Lula, Sardegna.

Antonio Allegretti s'innamorò di Elena Mesina la prima volta in cui la vide. Trent'anni, maestro elementare originario di Ostuni, si era adattato a guadagnare in Sardegna le 85 lire della paga di docente.

Era un giovane alto ed elegante, portava occhiali tondi da miope e i capelli con la riga da un lato. In paese alloggiava in una casa vicino alla chiesa parrocchiale di Santa Maria Assunta, una stanza al primo piano con la finestra ombreggiata da un gigantesco albero di fico. Non era sposato, e fino al giorno in cui vide Elena - il primo giorno di scuola, ottobre 1919 - aveva avuto come uniche passioni i libri e i suoi piccoli allievi. L'amore tra la maestra nuorese e il collega continentale sbocciò dopo un breve corteggiamento.

Al tempo ogni donna doveva essere inappuntabile e casta, e una ragazza forestiera ancora di più. Sicché i due fidanzati potevano incontrarsi solo durante le passeggiate scolastiche con gli alunni al santuario del Miracolo, e scambiarsi una carezza anche le volte in cui venivano invitati a pranzo dal parroco. Nulla di più, per un amore appena sbocciato, in attesa del fidanzamento ufficiale e del matrimonio. Elena aveva il cuore colmo di speranza, ma l'ombra che l'inseguiva era pronta a ghermirla. Erano passati solo due mesi dal suo arrivo a Lula e già il suo persecutore aveva ricominciato a tormentarla. Era l'uomo più ricco di Lollove, possedeva centinaia di capi di bestiame e tancati immensi. Cinquant'anni, vedovo, sapeva leggere e scrivere. Era uno abituato a prendersi quel che voleva e fin dal giorno in cui, l'anno prima, aveva messo gli occhi sulla maestrina di Nuoro, non pensava ad altro. Adesso arrivava fino a Lula, a cavallo, e passava tronfio davanti alla casa dell'insegnante. Si faceva vedere pure dinanzi alla scuola, e un giorno indossava il costume dei pastori e un altro sfoggiava l'abito elegante dei signori. Una corte sempre più insistente, tanto che Elena Mesina aveva deciso di comprare una pistola, e così fece pure Antonio Allegretti. Al possidente di Lollove era stato riferito che la maestra filava con il continentale e, visto che lei non lo degnava neanche di uno sguardo, pensò che era arrivato il momento di cambiare registro.

Non è chiaro se Antonio Allegretti avesse ricevuto quella cartolina all'indirizzo della casa di famiglia, a Ostuni, durante le vacanze di Pasqua, o se - cosa più probabile - gli era stata recapitata a Lula, poco prima che partisse. Una cartolina, come quelle che venivano regalate dai barbieri: c'era una donna nuda, il viso di Elena. Un fotomontaggio perfetto: Antonio Allegretti non aveva alcun dubbio sulla virtù della fidanzata, ma fu come se soltanto in quel momento avesse preso coscienza della potenza del suo avversario. Non dubitò mai della rettitudine di Elena, ma non ebbe la forza di sfidare la prepotenza di quel prinzipale barbaricino. Al rientro dalle vacanze di Pasqua non fece visita all'innamorata, né nei giorni che seguirono sollevò lo sguardo verso di lei.

Un segno infausto, per lei. Il suo innamorato - forse avvertito dai familiari durante i giorni trascorsi in Puglia - aveva deciso di lasciarla. Non sapeva esattamente il perché, ma intuiva che l'ombra malefica del suo persecutore doveva essersi intromessa tra loro. Era di maggio quando decise che non poteva sopportare oltremodo la sua pena. Un caldo pomeriggio del 18 maggio 1920. "Remundè, portami una gazzosa". La campana della chiesa parrocchiale toccava le cinque, Elena Mesina si era affacciata alla finestra dell'aula per chiamare la ragazzina che lavorava nel bar di fronte. Remundedda Spanu diede una scotolata al grembiule, versò la bibita in un bicchiere e s'incamminò. "Prendi questo biglietto e portalo al parroco", ordinò la maestra mentre quella poggiava il vassoio sulla cattedra.

La bambina uscì di corsa. Elena sorseggiò un poco di gazzosa e richiamò l'attenzione delle sue allieve. "Chiudete il quaderno e andate a casa".

Le alunne uscirono in silenzio. Appena fuori, videro la maestra che chiudeva le finestre e subito dopo s'udì uno sparo. In quel momento Remundedda Spanu consegnava il biglietto. Don Giovanni Antonio Mura lo aprì, riconobbe la grafia svolazzante. "Quando lei leggerà questo mio scritto io sarò cadavere". Il sacerdote corse verso la scuola con il cuore in gola, ma arrivò quando era già troppo tardi. Non poté neanche benedire il cadavere: la Chiesa non concede perdono ai suicidi e non dà il conforto dell'olio sacro a coloro che nel decidere il momento del passaggio si sostituiscono a Dio.

Mezzora dopo davanti alla scuola c'era la folla. Antonio Allegretti era arrivato di corsa, bianco come la tela, le mani in testa. Supplicava due carabinieri perché lo facessero entrare. Stette lì ad aspettare, finché un appuntato di Lula gli permise di vedere la morta. "Solo un momento, signor maestro". Solo un momento. Poi tornò a casa e quella notte, chiusa a chiave la porta, uscì dalla finestra che dava sul retro e, fatti cinquanta metri, si sparò un colpo in testa. Quel giorno don Salvatore Guiso, viceparroco di Lula, annotò due nomi sul Libro dei defunti, uno di seguito all'altro. "L'anno del Signore 1920, addì 18 maggio, è morta senza sacramenti, perché si è suicidata, Mesina Elena di Nuoro. Il cadavere è stato trasportato in forma semplice in cimitero". Subito dopo, nella pagina ormai ingiallita del registro parrocchiale, all'atto numero 24: "L'anno del Signore 1920, addì 18 maggio, è morto senza sacramenti, perché si è suicidato, Allegretti Antonio, di Francesco. Il cadavere è stato trasportato in forma semplice in cimitero".
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