Si fa presto a dire grano. Anzi, trigu. O tricu, a seconda che ci si trovi in Marmilla o in Gallura. Perché sono tante le varietà di frumento tradizionale della Sardegna, sopravvissute alle ondate di modernizzazione del Novecento: la mussoliniana Battaglia del grano, la Rivoluzione verde del Dopoguerra, il potenziamento genetico spinto (anche) dalla irradiazione nucleare. Almeno novanta (ma probabilmente sono di più) ne hanno contato Veronica Atzei e Francesco Mascia, co-autori di "Trigu - La storia dei grani storici della Sardegna attraverso l'indagine etimologica delle denominazioni locali", pubblicato di recente da Alfa Editrice.

GLI AUTORI - Un approccio multidisciplinare, un'accoppiata inedita di studiosi. Francesco Mascia, 35 anni, radici a Sanluri e Collinas, è un agricoltore (gestisce con la famiglia una azienda biosostenibile in Marmilla) e ha una formazione da botanico; Atzei, 41 anni, originaria di Turri, è un'insegnante con un background di Linguistica e un Master in Didattica del sardo. Entrambi fanno parte dell'Acadèmia de su sardu, un'agguerrita associazione culturale che si batte per la salvaguardia del sardo con l'obiettivo del pieno bilinguismo. Veronica Atzei, fra l'altro, ha partecipato alla stesura de Is Arrégulas, uno standard di scrittura aperto a tutte le varianti locali. "Nella linguistica sarda ci sono lavori interessanti sulla botanica e sugli animali. Ma non sul grano, il che è singolare, vista l'importanza del frumento nella millenaria agricoltura della Sardegna", osserva. Ma dal Dopoguerra a oggi l'agricoltura moderna, la produzione su scala industriale di grani, farine, pane e biscotti, il consumo crescente di prodotti standard da supermarket hanno cancellato quasi dovunque il sapore e persino il ricordo di alcuni frumenti della tradizione. È vero che negli ultimi decenni in Sardegna gli antropologi e gli storici hanno esaminato la cultura contadina nei suoi molteplici aspetti (dalla tecnologia alle funzioni della casa-azienda, alle modalità della produzione artigianale, in particolare di pasta e pane). Ma sulle spighe e i loro chicchi è caduto il silenzio.

I NOMI PERDUTI E RITROVATI - "Trigu" è il primo passo per il recupero dei nomi perduti, con le sue 134 schede dedicate ad altrettante definizioni del frumento in lingua sarda. Da Alvu a Venesotu, per ciascuna varietà è indicata l'area storico-geografica di uso, l'eventuale citazione nella bibliografia ufficiale (che parte dal trattato "Agricoltura di Sardegna" del 1780) l'etimologia, le principali caratteristiche botaniche e agronomiche. "Non un'opera definitiva, ma un punto di partenza", precisano Atzei e Mascia. Sperando che le schede, e le foto, risveglino la memoria degli anziani contadini residui. Un work in progress: "Persino quando il libro stava già andando in stampa continuavamo a trovare informazioni nuove", dice la linguista.

In due anni di appassionata ricerca, mettendo insieme le loro esperienze, all'apparenza così diverse, Atzei e Mascia hanno censito circa 90 varietà di grani locali a partire dai 134 epiteti usati per definirle. Il circa è d'obbligo e i due dati non collimano perché, spiega Francesco Mascia, lo stesso tipo di grano può avere denominazioni diverse nelle diverse aree della Sardegna. E viceversa. Per esempio, la definizione "Capella" (ma anche "Capelli" o "Capellu") si riferisce a una varietà elettiva (cioè selezionata da un agronomo a tavolino e non dai contadini nei campi) che è diventata tradizionale per essersi molto diffusa negli ultimi cento anni: il grano Senatore Cappelli. Creato in Puglia dall'agronomo Nazareno Strampelli e introdotto in Sardegna negli anni Venti, apprezzato e coltivato in tutta l'Isola per decenni, scomparso negli anni Settanta e riscoperto all'alba del nuovo Millennio per le sue doti di genuinità, resistenza e digeribilità. Però le parole non appartengono ai dotti, girano libere, si caricano di significati e sfumature a seconda di chi le usa. Quindi Atzei e Mascia precisano, nella apposita scheda, che in qualche caso "Capelli diventa un termine generico per individuare una qualsiasi buona varietà di grano duro di altezza elevata e con reste scure". Ha molte vite anche l'epiteto Tricu Cossu. In Gallura, Baronia e nel Supramonte indica un frumento tenero dal colorito rossastro, originario della Corsica e testimoniato in bibliografia sin dal XIX secolo. Nella zona di Orgosolo, però, lo stesso epiteto indica un qualsiasi grano tenero. Probabilmente perché l'attività principale era l'allevamento, e l'agricoltura, essendo marginale o a carattere familiare, non necessitava di una nomenclatura specializzata.

LA RICCHEZZA - Lo studio di Veronica Atzei e Francesco Mascia mette in evidenza la ricchezza e la varietà non solo delle colture, ma anche del lessico correlato. "Difficile trovare in altre regioni dell'Italia e del Mediterraneo un'ampiezza di descrizioni così specializzate, ben definite e ben delimitate", spiegano i due autori. D'altronde stiamo parlando della materia prima usata in un'industria fiorente per millenni. Le più antiche testimonianze di coltivazione risalgono al Neolitico e l'Isola era notoriamente il granaio della Roma antica. Nel Medio Evo la Sardegna esportava sia il grano che semola, frégula e pregiate paste essiccate verso il Continente, la Francia e la Spagna. L'interesse per l'attività agricola nell'Isola cresce in maniera esponenziale dal Diciottesimo secolo. Citazioni specifiche delle numerose e diverse varietà di grano si trovano nei vocabolari e negli studi di linguistica sarda, nei trattati degli agronomi e nei diari dei viaggiatori. Ma che cosa è rimasto di tanta biodiversità, nell'era della produzione di massa?

LA RICOSTRUZIONE - Il lavoro è partito dai nomi, dalle definizioni. Raccolti per anni da Francesco Mascia e da sua moglie Marianna Virdis nelle conversazioni con gli anziani agricoltori che li hanno aiutati con generosità nell'avvio della loro attività agricola, che ha base a Villanovaforru. "Dovunque andassimo, intervistavamo gli anziani e prendevamo appunti». Veronica Atzei ha compiuto l'indagine linguistica. Su 134 nomi del grano censiti nelle schede di "Trigu", 52 sono diffusi esclusivamente nella parte centro-settentrionale dell'Isola, che nella visione degli autori corrisponde alla macro-variante linguistica del sardo logudorese. Invece 38 si trovano solo al sud, nell'area in cui si parla la lingua sarda nella macro variante campidanese. Gli altri compaiono in tutta la regione, con piccole difformità nella scrittura o nella pronuncia a seconda del territorio in cui sono stati registrati. Sono perlopiù (65 per cento) di origine latina, mentre poco più di un terzo è fatta di parole catalane, castigliane o italiane sardizzate.

ESIGENZE DI PRECISIONE - La metà degli epiteti è legata al colore della pianta e in particolare della spiga e corrisponde in genere alle varietà più comuni. Quasi dovunque si trovano trigu Biancu, Canu o Murru (grigio o bruno), Moro, Nieddu; ma anche Arrubiu o Ruju. Definizioni generiche, che possono racchiudere varietà locali molto distanti tra loro. Ma il vocabolario agricolo tradizionale della Sardegna è ben più sottile e sottolinea svariate caratteristiche del frumento, con l'obiettivo di rendere la descrizione inequivocabile: l'Arrubiu arista niedda, il Murru piludu, il Resticano nigheddu. Non solo. Il 15 per cento degli epiteti censiti è fatto di etnonimi: designa l'appartenenza a un popolo, una nazione o un'area geografica specifica. Ci sono i sardi trigu de Borutta, Maresu, Montrestinu e via elencando. Ma anche il trigu Romanu, Lombardu, Venesotu. Ci sono grani che venivano dall'estero: il gallurese Cossu dalla Corsica, ma si registrano anche Maiorca, Moriscu, Turcu. Curiosamente, il trigu Sardaresu non è conosciuto né coltivato a Sardara, bensì nel Marghine; del trigu Moresu, coltivato a Sassari, non c'è traccia a Mores; né a Montresta si conosce il Trigu Montestrinu, coltivato a Ittiri, Olmedo e Villanova Monteleone. L'origine etnica segnala dunque un grano in qualche modo di "importazione". Com'era prevedibile, la stragrande maggioranza delle varietà ritrovate sono frumenti duri. In Sardegna, a differenza che in Italia, anche il pane si fa quasi dovunque con la semola.

NON È UN ELENCO DEI FOSSILI - Difficile rendere giustizia alla quantità di informazioni preziose che Atzei e Mascia hanno raccolto nel loro libro. Che non a caso è pubblicato da Alfa Editrice, la piccola macchina da guerra di Maria Marongiu, 65 anni, giornalista, indipendentista, una vita spesa a difendere la cultura e i diritti della Sardegna, a partire dalla sua lingua, a rischio di estinzione. "Non ho mai dubitato che fosse la persona giusta per accogliere il nostro lavoro", dice Veronica Atzei. "Vi presentiamo tutto un mondo antico e prezioso. A qualcuno verrà voglia di proseguire nella ricerca linguistica o agronomica", dice Veronica Atzei. Ma, attenzione, precisa Francesco Mascia, non siano davanti a un mero catalogo di varietà. "Trigu" è materia viva, non un elenco di fossili. "I grani storici sono risorse genetiche di cui conosciamo nome, storia, territori e comunità di provenienza, modalità d'uso. Insomma, stiamo parlando di una grande cultura", sottolinea l'imprenditore.

A OGNI PAESE IL SUO PANE - Una cultura da recuperare perché rappresenta le nostre radici, ma soprattutto perché può garantire il nostro futuro. "Se riuscissimo a reintrodurre le varietà di grano nelle loro aree storiche, e a coltivarle secondo tradizione, producendo con coerenza gli sfarinati da usare alla maniera di un tempo, potremmo avere in capo a pochi decenni tanti tipi di pane salutare, buono, arricchito dai profumi e dal sapore del proprio territorio naturale", dice Francesco Mascia. Così come si fa con il vino. O con i formaggi locali in Francia. Prodotti di qualità, preziosi come la terra che li ha generati nei secoli dei secoli.

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