Ultimi in classifica: l'Italia è il Paese dell'Unione europea che destina all'istruzione la più bassa percentuale della sua spesa pubblica. Meglio di noi, seppure sotto la media Ue, la Grecia e la Romania, inarrivabili in testa alla classifica i Paesi baltici: Lettonia, Estonia e Lituania. Tra i maggiori Paesi, il più virtuoso è il Regno Unito, che non a caso domina tutte le classifiche universitarie con i suoi prestigiosi atenei saldamente in testa nei ranking mondiali insieme a quelli statunitensi.

Il tema, di solito confinato nei dibattiti tra gli addetti ai lavori, è balzato al centro del dibattito politico in questi giorni con le dimissioni del ministro Lorenzo Fioramonti, motivate dal mancato introito di tre miliardi aggiuntivi da investire in Istruzione, che sarebbero dovuti scaturire da un aumento dell'Iva. E la necessità di maggiori investimenti è stata messa subito sul piatto dal suo successore all'Università e alla Ricerca Gaetano Manfredi, rettore della Federico II di Napoli e presidente della Crui, la conferenza dei rettori delle Università italiane. Proprio il più alto livello di formazione è quello che soffre di più della penuria di risorse.

LA SPESA IN ISTRUZIONE - Un focus sulla spesa in istruzione nell'Unione europea è stato recentemente diffuso dalla fondazione Openpolis - Con i bambini attraverso una elaborazione sui dati Eurostat che prendono in considerazione i vari percorsi educativi, dall'asilo all'Università, i servizi ausiliari all'istruzione e le altre spese in ambiti legati all'educazione come i corsi professionali.

La spesa media dei paesi dell'Unione europea in istruzione rappresenta il 10,2 per cento della spesa pubblica totale. In Italia ci si ferma al 7,9 per cento contro il 9,6 della Francia e il 13 del Regno Unito. Ultimo posto anche se si considera il parametro della quota di Pil investita in istruzione che vede il nostro Paese al 3,9 per cento contro una media del 5 per cento circa. Segno che l'intero sistema paese non investe risorse sulla formazione.

La spesa su scuola e università, come in tutti i paesi europei, ha avuto un brusco calo con la crisi economica con un taglio di sette miliardi dal 2009 al 2012 e di altri cinque dal 2008 al 2017, anni che ha visto una timida inversione di tendenza e una spesa di circa 66 miliardi. Denaro che è stato investito soprattutto sulla scuola d'infanzia e la primaria ma non sulla secondaria e sull'Università che negli ultimi dieci anni hanno perso in tutto quattro miliardi.

IL RAPPORTO OCSE-PISA E LE DISEGUAGLIANZE - La spesa pubblica in istruzione non è il solo parametro che fa giudicare la qualità delle formazione ma di fatto gli studenti italiani non brillano per competenze.

Emerge anche dal rapporto Ocse-Pisa recentemente diffuso e sintetizzato sugli organi di informazione con il dato più eclatante, quello della percentuale di quindicenni che non sanno comprendere un testo (ma pare che un analogo test con gli adulti darebbe risultati ben peggiori). Un rapporto che però ha diverse chiavi di lettura e contiene un dato molto più allarmante: l'istruzione per tutti è solo sulla carta. Profonde differenze attraversano Nord e Sud del Paese, città e paesi, ma soprattutto ricchi e poveri. I migliori studenti sono quelli di Trento e Bolzano, con risultati in linea con quelli dei coetanei tedeschi e sloveni, tra i peggiori i ragazzi sardi allineati con quelli di Grecia e Turchia.

E ancora la famiglia di origine nel successo scolastico conta tanto. Troppo. In Italia due studenti brillanti su cinque, tra chi proviene da famiglie svantaggiate, non si aspettano di completare gli studi universitari contro uno su otto da chi proviene da un contesto socio-culturale più alto. Dati che dicono chiaramente che la scuola non è un ascensore sociale. E lo è sempre meno, in un mondo del lavoro che richiede competenze sempre più elevate.

"Voi siete liceali, non parlate come quelli dei professionali, non siete mica in una scuola di figli di contadini": il video con il discorso di una dirigente scolastica agli studenti che contestavano il "contributo volontario", con il quale in Italia migliaia di famiglie finanziano attività scolastiche fondamentali, qualche settimana fa è diventato virale tra chi si occupa di scuola. Frasi contestate, stridenti con i principi costituzionali, che però dipingono l'amara realtà della scuola italiana (e non solo).

L'ABBANDONO: IL CASO SARDEGNA - In Sardegna, in base ai dati Invalsi, la metà dei ragazzi di seconda superiore ha difficoltà di comprensione del testo e più del 60 per cento ha competenze insufficienti in matematica con un picco negativo della provincia del sud e l'eccezione in positivo di Lanusei. Ragazzi e ragazze che fanno fatica, che non raggiungono gli obiettivi minimi e alla fine tanti, troppi, di loro lasciano.

Ancora più allarmante delle competenze inadeguate è l'esercito di ragazzi e ragazze che la scuola perde per strada ed è qui che le disuguaglianze, sociali, economiche e territoriali, diventano più profonde. La Sardegna con il 23 per cento di abbandoni scolastici è tra le regioni europee più colpite dalla povertà educativa (ultima in Italia che è a sua volta al quart'ultimo posto in Europa superata - in negativo - solo da Spagna, Malta e Romania).

Ci sono però profonde differenze all'interno della stessa Isola che oscilla tra il 27,5 per cento del sud Sardegna e l'8,7 per cento della virtuosa Oristano che ha una media da nord Italia (elaborazione Openpolis). Ma i numeri salgono vertiginosamente se alla dispersione esplicita (il numero di giovani tra i 18 e i 24 anni che non sono andati oltre la licenza media) si aggiunge quella implicita, gli studenti che hanno frequentato fino all'età dell'obbligo ma senza portare a termine i propri obiettivi formativi.

Una vera e propria bomba sociale che avrebbe bisogno per essere disinnescata di investimenti finanziari e progetti incisivi sul fronte dei servizi educativi, dell'orientamento scolastico, dell'offerta formativa e del contrasto agli ostacoli che allontanano ragazzi e ragazze dai banchi di scuola. Una scuola che, per dirla con don Lorenzo Milani, e a 50 anni dalla sua "Lettera a una professoressa" continua ad essere "un ospedale che cura i sani e respinge i malati".
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