Indossare un abito tradizionale sardo vuol dire avere le proprie radici cucite addosso. È un modo per riscoprire la propria identità misurandola su se stessi, facendola abitare nell’animo. Questo viaggio nel passato serve ad attualizzare un messaggio, renderlo strumento di conoscenza storica. Non è un caso che diversi ricercatori, molti dei quali giovani, abbiano voluto studiare la materia, con scrupolo e grande impatto emotivo.

ORUNE - Giuliana Pittalis, 40 anni, insegnante di Orune, si è innamorata dell’abito tradizionale del suo paese complice l’ingresso in un gruppo folk. “È ormai da diverso tempo –racconta - che l’amore e l’interesse che ho verso l’etnografia e le tradizioni della Sardegna, ma in modo particolare verso quelle del mio paese, cresce ogni giorno di più. Tutto ebbe inizio quando entrai a far parte del gruppo folk “Santa Lulla”, e continuò durante gli studi universitari, con i quali ho potuto approfondire le mie conoscenze, frutto di una grande passione ed entusiasmo per tutto ciò che è tradizione”. Dalla pura passione alla voglia di approfondimento il passo è stato breve. “Grazie all’aiuto di diverse testimonianze, e a una vasta ricerca sul campo, ho voluto mettere alla ribalta quelle che sono state e che ancora sono le tradizioni di Orune, dove, grazie al gruppo folk locale e a qualche appassionato, sopravvivono ancora certe usanze.

Giuliana Pittalis Chessa nell'abito tradizionale di Orune (Foto da Facebook)
Giuliana Pittalis Chessa nell'abito tradizionale di Orune (Foto da Facebook)
Giuliana Pittalis Chessa nell'abito tradizionale di Orune (Foto da Facebook)

Grandi le testimonianze dei viaggiatori che arrivavano nell’Isola e annotavano tutto quello che vedevano, e grandi le loro testimonianze sulla descrizione del vestiario e della gente durante i momenti di festa. Sono le nostre storie che si mescolano con quelle dei nostri avi. Una cosa che mi ha sempre emozionato è stata quella di pensare, ogni volta che ho la possibilità di indossare “su custumene”, a chi prima di me lo ha portato con onore, utilizzandolo nella vita quotidiana, nei momenti di gioia e in quelli di dolore. Importante è stato anche interessarmi ai diversi tipi di vestiario, legati al contesto sociale di appartenenza”. Il lavoro della Pittalis è meticoloso, la ricerca – profonda – si nutre di molte testimonianze dirette perché l’oralità in Barbagia resta, per fortuna, prezioso veicolo di conoscenza. Citare un passaggio del testo di Giuliana Pittalis esemplifica la minuzia dell’autrice nel descrivere un capo de su custumene orunese. “Ad Orune erano tre i copricapo utilizzati. Uno chiamato “su mucadore”, sempre indossato e ancora oggi utilizzato dalle anziane quotidianamente, l’altro “s’ iscialleto” usato nelle giornate di festa e nelle diverse cerimonie. La benda invece veniva utilizzata meno ed erano le donne anziane a farne un uso maggiore. I vari copricapo prevedevano un’acconciatura adatta, i capelli dovevano essere raccolti dietro la nuca da “su cucchetto”, una sorta di crocchia e con la fronte libera. Il tessuto utilizzato per lo scialle e il fazzoletto era in genere la seta, anche se oggi è stata sostituita dal raso, mentre per la benda si utilizzava il lino e il cotone”.

BITTI - Testimonianze preziose ma soprattutto una passione che viene dal cuore sono alla base del lavoro di Antonello Carzedda, il più profondo conoscitore dell’abito tradizionale della sua Bitti. Lui lo chiama ancora su custumene, senza tema di apparire inappropriato. Tutt’altro. “Le nostre nonne e le nostre mamme lo hanno sempre chiamato così, francamente non capisco questa avversione di matrice campidanese al termine costume”. A Bitti l’uso dell’abito da sposa tradizionale era in voga fino agli anni Settanta. Carzedda è in grado di raccontare l’evoluzione del “costume, cambiato tantissimo dalla fine del Settecento al Novecento. L’abito originale era di una semplicità estrema. Poi si è arricchito con le stoffe che arrivavano dall’estero, soprattutto dalla Francia, nell’ultimo ventennio dell’Ottocento. Il terziopelo, vrennizzatu in lingua bittese, dettava il valore sociale di un abito”. Era uno status simbol ante litteram. La classificazione del vestiario tradizionale soprattutto a Bitti, sostiene Carzedda, va condotta per periodi storici.

Abito di Bitti (da Facebook)
Abito di Bitti (da Facebook)
Abito di Bitti (da Facebook)

“Anche l’acconciatura è cambiata, dai primi dell’Ottocento. Si è passati dalla benda bianca di tela agli scialletti in seta, arrivati dalla Francia”. In una realtà come quella bittese, economicamente florida, le donne potevano permettersi di seguire la moda. Collezionista di costumi interi e indumenti singoli, rigorosamente bittesi, Carzedda voleva "su custumene" perché altri bambini ce l’avevano. "Mia madre, però, me lo ha fatto desiderare, come tutte le cose belle”. La passione è inesausta. Carzedda è partecipe dell’organizzazione di diverse mostre. Le più recenti per le Cortes. Ne ha curata una a Nuoro, sui gioielli tradizionali di Bitti, insieme a Tino Basile, Ivan Costa e Marcello Ferreli. La settimana scorsa l’appassionato ricercatore ha collaborato anche all’allestimento della mostra sulle litografie di Martelli aperta a Orune.

BARI SARDO - Rassegne, mostre e studi etnografici – la materia è sempre l’abito tradizionale – si susseguono anche in Ogliastra e grande merito va all’associazione culturale Nostra Signora di Monserrato che si è costituita a Bari Sardo. Il sodalizio, nato nel 2016, persegue lo scopo di ricercare, studiare ricostruire le antiche fogge vestimentarie che hanno caratterizzato il centro ogliastrino. Vanta una vasta collezione di abiti antichi e di recente manifattura conservati e catalogati per periodo di appartenenza secondo il metodo di ricerca che si considera più appropriato.

Abito tradizionale di Bari Sardo (da Facebook)
Abito tradizionale di Bari Sardo (da Facebook)
Abito tradizionale di Bari Sardo (da Facebook)

Sebbene costituita di recente, l’associazione nata a Bari Sardo vanta costante presenza alle più importanti manifestazioni culturali e religiose di tutta la Sardegna. Ultime apparizioni a Maracalagonis e la domenica prima di Natale ancora a Bari Sardo. Di notevole interesse culturale lo scorso anno la organizzazione di un convegno sul vestiario locale risalente al 1800, in cui si è dato risalto a due abiti (maschile e femminile) ricostruiti tramite gli acquarelli di Giovanni Gessa (1858/1861). Questo lavoro ha permesso all'Associazione di entrare in contatto e di avvalersi della collaborazione di molti esperti di vestiario tradizionale tra cui Francarosa Contu, punta di diamante della ricerca al Museo etnografico. È grazie a lei che sono stati svelati luoghi comuni. A coloro i quali inorridirono vedendo sfilare uomini in abito tradizionale con l’orecchino alla festa del Redentore, rispose che l’orecchino era un accessorio maschile anche in passato.

Qualche settimana fa, a Bari Sardo, è stato organizzato un altro convegno, il cui tema è stato l'evoluzione del vestiario femminile bariese. Come contorno una mostra che ne testimoniava i vari passaggi.

I membri dell'Associazione hanno condotto una meticolosa ricerca sul territorio per poter allestire la mostra con capi d'epoca molto preziosi e custoditi gelosamente dai proprietari.

Da un'inziale diffidenza si è poi giunti ad una generosità tutta ogliastrina che ha portato i proprietari a mettere a disposizione degli organizzatori capi preziosi da esibire a tutti in una bella serata che rievocava la nostra tradizione. Gli occhi dei visitatori sono stati allietati dai tanti colori, ricami e stoffe pregiate un percorso carico di tante emozioni.

Abito tradizionale di Gavoi (Foto Pillonca)
Abito tradizionale di Gavoi (Foto Pillonca)
Abito tradizionale di Gavoi (Foto Pillonca)

I relatori hanno condotto il pubblico in un bellissimo viaggio sule ali della memoria storica del vestito tradizionale femminile bariese e non solo. Gabriele Lai, presidente dell’associazione Nostra Signora di Monserrato, ha illustrato l'evoluzione dell'abito tradizionale bariese. Un arricchimento per la nostra comunità che si riappropria della sua identità, della propria storia e della propria cultura; Antonello Doneddu, appassionato di vestiario tradizionale, nonché presidente del Gruppo Folk Sant'Anna di Tortolì che ha parlato del vestiario ogliastrino, facendo riferimento a quelle sottili differenze che caratterizzavano gli abiti ogliastrini; Ignazio Sanna Fancello, uno dei massimi esperti di vestiario tradizionale, nonché sarto di grande talento ha parlato di costumi sardi con riferimento alla moda europeo dal 700 ai giorni nostri. Apprezzata la relazione di Angela Maria Casu, che ha parlato del "saper fare" delle donne sarde come segno di appartenenza dell'identità del nostro popolo. “Ho voluto ricordare mia nonna Angela Menicocci, che – dice Casu - ha svolto un ruolo importante nella comunità bariese del 900. Una figura femminile, come altre dell'epoca, ma, allo stesso tempo, ricca e generosa custode del "saper fare" tanto pregiato, per chi l'ha conosciuta, al punto da fungere come testimonianza del nostro recente passato”.

Sia la mostra che il convegno hanno ricevuto tanti apprezzamenti e molta attenzione dai partecipanti, tra i quali anche molte persone anziane.

Antonio Francesco Costieri (Foto Pillonca)
Antonio Francesco Costieri (Foto Pillonca)
Antonio Francesco Costieri (Foto Pillonca)

GAVOI - Gli approfondimenti sugli abiti tradizionali dell’Isola nei secoli attecchiscono ovunque e il fascino della materia, come detto, attrae molti giovani. Uno di questi è Antonio Costeri, 23 anni, di Gavoi. Laurea in Scienze dell’educazione e studi in corso per la specializzazione in Lettere, è stato allevato in una famiglia che custodisce le tradizioni popolari e i valori più autentici come patrimonio inestimabile. La sorella Myriam, studentessa anch’ella, è una provetta suonatrice di organetto, lui invece colleziona abiti tradizionali. Li acquista investendo i suoi risparmi, ne possiede oltre cinquanta. Di quelli ricevuti in eredità ne ama uno in modo particolare. Apparteneva a suo nonno. La collezione è talmente ampia da legittimare l’idea di un museo del costume tutto gavoese.
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