Hanno provato a fermarlo in tutti i modi: la voce di Miko Peled, l'israeliano che denuncia i soprusi che da ottant'anni subisce il popolo palestinese, provoca enorme fastidio alle orecchie dei sionisti.

È arrivato in Italia per incontrare gli studenti di tre università, a Torino, Milano e Cagliari. Nel capoluogo lombardo, la comunità ebraica aveva chiesto (e ottenuto) l'annullamento dell'incontro perché si doveva svolgere nel giorno in cui gli ebrei celebrano una loro festività, lo Yom Kippur. Gli studenti del collettivo Fuori Luogo, però, hanno occupato simbolicamente l'aula destinata all'incontro e Peled ha, così, potuto parlare.

A Cagliari, invece, l'Associazione memoriale sardo della shoah ha chiesto, attraverso una lettera indirizzata al rettore Maria Del Zompo, l'annullamento della conferenza in programma alla facoltà di Scienze politiche. Ma anche in questo caso l'attivista israeliano filo palestinese ha potuto incontrare gli studenti.

Ma perché Peled fa tanta paura? In fondo, è uno dei tanti sostenitori della "campagna Bds" (che chiede boicottaggio, disinvestimenti e sanzioni nei confronti di Israele). E, per quanto non siano tantissimi, è uno di quegli israeliani che si rende conto del fatto che quel paese sta martoriando da decenni un popolo palestinese.

Ma Peled non è un israeliano qualunque: proviene da una famiglia sionista, i suoi parenti hanno fatto la storia di quel paese. A cominciare dal padre, generale durante la guerra del 1967 e considerato, a quei tempi, un "falco" (il suo libro, non a caso, si intitola "Il figlio del generale"). L'humus ideale nel quale sviluppare una visione nazionalista.

Invece, Peled si ritrova dall'altra parte della barricata. Perché?

"In realtà, ci sono stati non uno ma tre passaggi fondamentali. Il primo è un racconto fatto da mia madre - anche lei totalmente sionista - quando ero ancora un ragazzino. Mi disse che, nel 1948, quando i palestinesi furono cacciati da Gerusalemme ovest, furono requisite le loro case. A lei ne fu offerta una dal momento che il marito faceva, in quel momento, il militare. Lei rifiutò dicendo: 'Non potrei mai prendere la casa di un'altra madre'. E rimase nella sua piccola casa. Lo so, sembra strano: in questi casi, la psicologia parla di dissonanza cognitiva".

Paradossalmente, anche suo padre, il generale, la aiutò in questo percorso.

"All'inizio della guerra, lui era considerato un falco. Criticava gli altri generali per l'approccio troppo molle. Poi, terminata la guerra del 1967, si rese conto che c'era qualcosa di sbagliato. Che era il caso di sentire anche i palestinesi e incontrò anche Arafat. Si convinse della necessità di cercare la pace, di applicare il principio 'due popoli, due stati'. Ma gli altri generali lo stavano a sentire: 'Questa terra', gli dicevano, 'è nostra'. E a lui non rimase che continuare la sua battaglia facendo sentire la sua voce e scrivendo articoli, sino alla sua morte, avvenuta nel 1995".

Ha parlato di un terzo episodio.

"Nel 1997 ci fu uno spaventoso attentato suicida di estremisti palestinesi a Gerusalemme. Fu uccisa anche mia nipote di 13 anni. Visto che la nostra era una famiglia molto nota in Israele, vennero tanti giornalisti, tanti reporter televisivi a intervistare mia sorella: volevano sentire parole d'odio, di vendetta. Lei, invece, li gelò dicendo 'nessuna vera madre vorrebbe che un'altra madre provasse quello che sto provando io adesso'. Ecco, questi sono stati tre momenti fondamentali della mia vita".

La sua famiglia è cambiata, il resto del paese, invece, pare proprio di no. Eppure ci sono voci fuori dal coro, come quella dell'editorialista di Haaretz Gideon Levy.

"Purtroppo ci sono lui e pochi altri. Il resto del paese continua ad sostenere l'ideologia dell'odio nei confronti dei palestinesi. D'altronde, Benjamin Netanyahu lo guida da tantissimo tempo".

Miko Peled parla agli studenti (foto L'Unione Sarda - Cocco)
Miko Peled parla agli studenti (foto L'Unione Sarda - Cocco)
Miko Peled parla agli studenti (foto L'Unione Sarda - Cocco)

Anche se la sua leadership sembra in declino.

"Pensate che gli altri leader siano differenti? Si va a votare ogni sei mesi ma, su queste cose, non cambia niente. In un modo o nell'altro, sono tutti criminali di guerra. E, vedrete, alla luce delle recenti elezioni, si arriverà a un governo di unità nazionale. In fondo, a tutti va bene così".

Perché?

"Perché gli israeliani la pensano allo stesso modo. Sono convinti di essere nel giusto.

Eppure in tutto il mondo c'è una mobilitazione a favore dei palestinesi. Possibile che, con gli attuali mezzi di informazione, non se ne rendano conto?

"Le mobilitazioni? Vengono bollate come manifestazioni di antisemitismo. E tutti ci credono".

Eppure il sionismo è nato come movimento socialista.

"E lo è tuttora. Solo che i diritti, il welfare, il sostegno economico riguardano solo gli israeliani. È diventato un movimento nazionalista. Anzi, 'nazionalsocialista'".

Quindi, poche speranze di un cambiamento da Israele. E il resto del mondo che cosa può fare?

"La "campagna Bds" è un "regalo" che ci hanno fatto i palestinesi. È lo strumento di pressione economica con il quale si possono raggiungere i tre obiettivi che hanno i palestinesi: la fine dell'occupazione, la concessione di uguali diritti e il diritto al rito o nella loro terra".
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