Settembre 1896. Due giovani fratelli, Raffaello e Alfonso Zoja, decidono di intraprendere la scalata del monte Gridone, nei pressi del Lago Maggiore, in compagnia dell’alpinista Filippo De Filippi. Raffaello e Alfonso sono pieni di entusiasmo per l’avventura che stanno per intraprendere. Sono ottimisti per natura e figli della cultura scientifica e positivista del loro tempo per cui l’uomo è destinato a dominare la natura grazie alla scienza e alla tecnologia. La loro impresa prosegue bene per qualche ora, poi improvvisamente il tempo cambia e una tormenta di neve costringe i tre scalatori a tentare il rientro alla base. I due fratelli però perdono la vita e il solo Filippo De Filippi riesce a salvarsi.

Questa drammatica vicenda è il punto di partenza del romanzo L’inferno sulla vetta (Bompiani, 2019, Euro 14, pp. 288. Anche Ebook), in cui Paolo Mazzarello, docente di storia della medicina all’Università di Pavia, racconta non solo la tragedia di due giovani e di un’intera famiglia ma ripercorre un momento fondamentale della storia della scienza e della cultura italiana.

I fratelli Zoja, infatti, si muovono nell’ambiente accademico dell’Università di Pavia, un ambiente attraversato nel corso dell’Ottocento da animate discussioni sulle grandi questioni del tempo come il darwinismo, l’anticlericalismo, il positivismo, il socialismo. In questo contesto i due fratelli Zoja si muovono da protagonisti, finché il destino non rimescola quelle carte di cui la filosofia del tempo credeva di aver svelato tutti i trucchi. Ma da dove nasce l’idea di raccontare in forma di romanzo una vicenda tanto lontana nel tempo? "Il libro nasce durante un viaggio in Nepal, ai piedi dell’Everest, un viaggio che ho fatto qualche tempo fa. In maniera istintiva, senza essere un alpinista, avevo scelto di accompagnare un mio collega e per più di due settimane ho attraversato a piedi un luogo dominato dalla natura. Durante il cammino ho avuto molto tempo per me stesso e mi sono ricordato di Filippo De Filippi, medico, viaggiatore e alpinista a cavallo tra Ottocento e Novecento, che aveva esplorato l’Himalaya. Mi sono ricordato che all’inizio della sua carriera due suoi compagni di scalata erano morti. Questa storia ha cominciato a frullarmi in testa e mi è venuta voglia di scrivere di montagna. Quando poi mi sono documentato ho scoperto che i due giovani morti mentre scalavano con De Filippi erano legati all’Università di Pavia, dove lavoro. Ho scoperto che erano persone legate al mondo scientifico, ma anche impegnate nel socialismo e vicine al movimento operaio. Insomma, ho trovato una storia che intrecciava avventura, montagna, storia e scienza e mi sono messo a scrivere".

Nel suo libro emerge il ruolo cruciale di Pavia nel progresso scientifico dell’epoca. Perché l’ateneo pavese era tanto importante?

"Pavia era uno dei centri della scienza mondiale all’epoca. Camillo Golgi vi aveva appena scoperto la struttura del cervello. Forlanini faceva studi che avrebbero rivoluzionato la cura della tubercolosi. Edoardo Porro introdusse il parto cesareo moderno. Pavia racchiudeva l’effervescenza scientifica, culturale e anche sociale dell’Italia dell’epoca".

Perché la vicenda dei fratelli Zoja l’ha colpita tanto?

"Perché la loro è una sorta di tragedia greca. Sono due giovani carichi di vita e di prospettive e un evento improvviso segna non solo la loro vita, ma anche quella della loro famiglia. La tragedia che li colpisce, inoltre, mostra il contrasto netto tra la visione ottimistica della natura e della società tipica del tempo e la realtà. Gli intellettuali del tempo e gli scienziati di fine Ottocento erano intrisi di positivismo, avevano letto Darwin senza comprendere fino in fondo che per il grande naturalista inglese l’evoluzione è cieca, si rivolge là dove trova dei varchi. Non ha una direzione ben precisa mentre per l’uomo di fine Ottocento tutto era lineare e marciava verso il meglio: la scienza, la società. I due giovani affrontano la loro scalata con la certezza che non possa accadere nulla e poi si trovano ad affrontare eventi che negano quello in cui hanno sempre creduto".

Il messaggio del suo libro è anche un monito per l’oggi?

"Oggi ci si affida ciecamente alla tecnologia ma conviene sempre essere prudenti. Non tutto quello che si può fare, deve essere automaticamente fatto. Io sono per la libera scienza perché la conoscenza è un valore sempre. Ma l’applicazione della scienza, la tecnologia, è un’altra cosa e qui la prudenza è d’obbligo".

La copertina
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