Immaginate di svegliarvi all’improvviso dopo quello che vi è sembrato un lungo sonno. Siete seduti alla scrivania di un ufficio, alcune persone vi parlano e sembra che vi conoscano benissimo. Voi, viceversa, non avete la minima idea di dove vi troviate, non sapete chi vi stia parlando e soprattutto non ricordate nulla, neppure il vostro nome.

È quello che succede a Jed Allen, il protagonista dell’intrigante thriller Crash (La Corte Editore, 2019, euro 18,90, pp. 304), firmato da uno dei maestri del giallo psicologico, l’inglese Keith Houghton. Probabilmente in una situazione simile anche voi come Jed vi sentireste spaesati, in balia di emozioni contrastanti, quasi schizofreniche, nonostante le rassicurazioni di chi vi sta intorno e dice di conoscervi. A Jed tutti ripetono che è un affermato architetto, che sta per concludere un affare importantissimo per il suo studio e che non è in preda a follia ma ai postumi di un incidente d’auto avvenuto mesi prima. Gli ripetono di non preoccuparsi: le sue amnesie sono ricorrenti ma transitorie e di breve durata.

Solo che questa volta l’interruttore non si riaccende, i ricordi non tornano e Jed comincia a osservare dall’esterno quella che tutti definiscono come la sua vita, la osserva da estraneo. E più guarda alla sua esistenza dall’esterno e meno gli piace quello che osserva.

Si scopre una persona cinica, un donnaiolo impenitente, un molestatore di donne che non gli si concedono e un animale da preda sul lavoro, un rapace pronto a tutto pur di ottenere quello che vuole. Soprattutto più si spinge a fondo cercando di ritrovare i pezzi della sua esistenza dimenticata, più trova nuovi buchi, altre tessere mancanti nel puzzle che sta provando a ricomporre e sente i dubbi e il disagio crescere. Veramente era così viscido prima del black-out mentale oppure è tutta una costruzione del suo cervello sotto stress? Chi è la donna di cui possiede centinaia di foto in un angolo nascosto della casa? Soprattutto: perché c’è un vestito sporco di sangue nel bagagliaio della sua auto? La sua memoria nasconde qualcosa di indicibile oppure è tutto frutto di suggestioni?

L’unico modo per rispondere a queste intriganti domande è immergersi nel vuoto della memoria di Jed come ci invita a fare Keith Houghton attraverso una narrazione in cui è il protagonista in prima persona a condurci attraverso i labirinti della sua mente. Con Jed ci muoviamo in quella sorta di pianura piatta che è il suo passato, una pianura senza inizio e fine, senza un volto conosciuto, un luogo, un odore e un sapore a fare da punto di riferimento. Più procediamo nel viaggio assieme a Jed più ci sentiamo come il protagonista disorientati, curiosi e allo stesso tempo spaventati di fronte a un nuovo cassetto da aprire, una mail da leggere, un armadio da esplorare. Tutto ci può dare delle risposte oppure proporci nuovi interrogativi e altri dubbi. Grazie alla capacità di Houghton di trasportare il lettore al centro della narrazione, ci sentiamo, come Jed, indifesi, avvolti in una ragnatela di accuse, sospetti, ombre e ambiguità che ci fanno letteralmente provare sulla nostra pelle l’incubo che può vivere una mente senza memoria. Una mente che brancola nel buio e che si ripete incessantemente: "E se non mi ricordassi la cosa peggiore che ho fatto?".

La copertina
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