Il mito - perché tale è ormai il ricordo di questo straordinario protagonista della musica leggera italiana -, torna in un libro di foto e memorie in cui risalta la sua indubbia personalità scenica oltre che artistica "Fabrizio De André. Sguardi randagi" (Rizzoli, 131 pagine, 45 euro - prefazione di Christian De André - postfazione di Dori Ghezzi).

Ne è autore il fotografo Guido Harari che per quasi vent'anni è stato uno dei fotografi personali del cantautore genovese. In quest'opera, Harari, fotografo e giornalista musicale (ha firmato anche numerose copertine di dischi per artisti italiani e internazionali come Pavarotti, Vasco Rossi, Claudio Baglioni, Pino Daniele, Bob Dylan, Lou Reed e Frank Zappa) che a De André - del quale ha curato anche la grande mostra multimediale allestita al Palazzo Ducale di Genova - ha dedicato vari libri, nel volume oltre alle sue splendide foto inedite ha inserito stralci di interviste e diversi documenti messi a disposizione dalla vedova Dori Ghezzi.

Ricordati gli incontri con Fernanda Pivano, l'esperienza di agricoltore in Sardegna del cantante e il suo amore per l'isola, la sua innata sensibilità e il perfezionismo musicale attraverso il quale realizzava il senso tutto della vita.

Harari, potremmo definire il suo libro una "biografia per immagini"?

"'Sguardi randagi'" è più un diario per immagini del mio rapporto personale e professionale con Fabrizio De André. Vi ho raccolto circa 300 fotografie da me realizzate tra il 1979 e il 1998, accompagnate da aneddoti e alcuni virgolettati di Fabrizio estrapolati dalle interviste che ho realizzato con lui negli anni. Per una vera biografia bisognerebbe optare per un altro mio libro dedicato a De André, 'Una goccia di splendore', oppure 'Evaporati in una nuvola rock', scritto con Franz Di Cioccio, sulla leggendaria tournée del cantautore con PFM".

Che tipo di esperienza ha rappresentato per lei fotografare questo grande personaggio della storia artistica italiana?

"È stato un viaggio alla scoperta di un artista che ho amato fin da ragazzo. La macchina fotografica mi ha permesso di osservarlo da vicino, di poter instaurare un rapporto di fiducia e di vicinanza. Insomma, di guardare la persona al di là del personaggio. Un viaggio straordinario dettato dalla curiosità, dal desiderio di conoscere".

Quali gli aspetti fisici e "spirituali" dell'uomo e dell'artista che maggiormente ispiravano i suoi scatti?

"Si fotografa una persona per vederla dentro. Spesso accantonavo la macchina fotografica per ascoltarlo, per capire. Non amava farsi fotografare, ma si lasciava guardare volentieri. La conversazione era la nostra priorità e la moltitudine di argomenti affrontati la diceva lunga sui suoi interessi e sulle sue letture, soprattutto (parliamo di un'epoca in cui non c'era ancora Internet, di cui quasi sicuramente lui non avrebbe voluto servirsi). Negli ultimi anni era diventato, suo malgrado, un maestro di pensiero. Molte foto raccolte in questo libro raccontano l'innaturalezza che provava davanti all'obbiettivo, ma anche il divertimento che veniva a salvarci dall'impaccio".

Fra le tante star che ha ritratto chi le è sembrato potesse avere qualcosa in comune con De André e perché?

"Artisticamente, si sa che avesse affinità elettive con Bob Dylan, Leonard Cohen, Georges Brassens. Accomunati da molta cultura in comune e da un grandissimo amore per la poesia. Tutti e tre della stessa generazione, tutti e tre spiriti libertari. È facile trovare un filo rosso tra loro. Credo che se ne sia rotto lo stampo. Sono stati testimoni di un mondo e di un'epoca irripetibili".

De André amava farsi fotografare, o si prestava perché il suo ruolo non poteva esimerlo da questa necessità?

"Farsi fotografare era parte di un rituale ineludibile per qualunque personaggio pubblico. Negli anni Sessanta e Settanta i fotografi si piazzavano in casa, immortalando gli artisti con moglie e figli, perché questo era quello che i media dell'epoca volevano. Altro che arte. Fabrizio non opponeva resistenza, ma era ben chiaro che il rituale gli stesse stretto. Una volta mi spiazzò in Sardegna, l'Isola che lui amava incondizionatamente, dicendomi di lasciar perdere le foto, tanto i giornali avrebbero scelto senz'altro quelle sbagliate, o non le avrebbero usate per nulla. Fu lo sfogo di un momento, e poi si immolò comunque davanti all'obiettivo".

Quale "anima" di De André gli si presentava ogni volta che lo inquadrava nell'obiettivo?

"Era sempre un gioco, quello delle fotografie. Si cercava di indovinare quali spunti avremmo potuto utilizzare per ottenere qualcosa di interessante: una volta il laghetto in Sardegna, un'altra la casa di Milano col suo bel terrazzo. Molte mie foto sono state pubblicate spesso e sono in qualche modo entrate nell'immaginario dei suoi fan. Ma per noi tutto nasceva dall'improvvisazione e dal gioco, in maniera ragionevolmente spontanea".

Quali sono gli aspetti più importanti della vita dell'uomo e del cantante che l'hanno maggiormente colpita?

"Certamente l'impegno civile, così evidente in molti suoi testi; l'aver inseguito tutta la vita e infine realizzato il sogno di avere un pezzo di terra tutto suo dove allevare bestiame, in Sardegna; la 'nobiltà' con cui ha elaborato e superato l'esperienza drammatica del sequestro; e, come artista, il perfezionismo nel cesellare testi e musiche (spesso con collaboratori straordinari) di grande spessore e coraggio: penso alla vera e propria rivoluzione di un disco come 'Creuza de ma', cantato in genovese antico, forse il primo esempio di moderna world music".

Quale l'è sembrata da amico e da fotografo la più grande qualità di Fabrizio De André?

"La curiosità. La capacità di parlare dei massimi sistemi con assoluta semplicità con chiunque. E la capacità di ascoltare".

Come percepisce, vive e medita le canzoni di De André?

"Sono nel mio Dna, come pure in quello di migliaia e migliaia di persone. Le ascolto e le leggo, sono cibo per la mente e per lo spirito. Fonte continua di ispirazione, ancor di più in tempi tragici come quelli che stiamo vivendo. C'è bisogno di un padre, di un modello di riferimento, di una figura che riporti tutto all'essenza, con umanità e poesia".

Francesco Mannoni

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