L'individualismo è un po' la cifra caratteristica della civiltà moderna. Soprattutto nelle città si vive nella maggior parte dei casi in nuclei familiari sempre più essenziali, spesso si conoscono a malapena i propri vicini e si fatica a fare gruppo.

Abitiamo quasi tutti in appartamenti, cioè in abitazioni che già nel nome richiamano l'idea di stare "appartati", lontani dagli altri. Difficile pensarci come comunità o addirittura come tribù, cioè come insieme di persone che condivide obiettivi chiari, che si soccorre in caso di bisogno, che agisce pensando prima al gruppo e poi al singolo.

È la civiltà, signori! E ci sono voluti migliaia di anni per svilupparla e per distaccarsi dai clan, dalle famiglie allargate, dalle comunità tribali.

Però dentro di noi a volte ci manca quel senso di appartenenza, quel non sentirsi mai soli del tutto sia nei momenti difficili, sia in quelli di gioia. Forse per questo la vita nei piccoli paesi ci pare più a misura d'uomo, più in linea con il Dna di una specie come la nostra, con alle spalle una storia millenaria di vita comunitaria e solo pochi secoli di esistenza da single.

Forse dentro di noi c'è quello che lo scrittore e giornalista americano Sebastian Junger nel suo "Tribù" (LEG Edizioni, 2018, pp. 150, anche e-book) descrive come un senso di solidarietà tribale innato, qualcosa che sta al centro di ciò che significa essere umani. Per Junger è l'innata presenza di questo senso di solidarietà a far sì che molte persone oggi si sentano fuori posto nella società moderna e non riescano a dare un significato alla propria vita.

Conclusioni non nuove verrebbe da dire, però "Tribù" spiazza perché non pone la questione di una scelta tra civiltà moderna e mondo tribale. Junger ci dice che solo la tribù, il ritorno all'appartenenza può regalarci un futuro. La tribù è qualcosa che ci ha aiutato a giungere fino a questo momento della nostra storia e potrebbe aiutarci a superare le difficoltà e lo smarrimento del presente per costruire un futuro meno destabilizzante.

A rafforzare le tesi del giornalista americano le sue tante esperienze a contatto con società ancora fortemente tribali, incontrate svolgendo la professione di inviato di guerra in Iraq e Afghanistan. Società dove lealtà, senso di appartenenza, condivisione sono ancora valori imprescindibili e non necessitano di norme o leggi per essere rispettati. Esempi che possono apparire lontani dalla nostra realtà e allora Junger racconta il suo vissuto di giornalista che ha trascorso lunghi periodi con i militari di stanza in teatri di guerra e ha condiviso la vita della truppa.

La copertina del libro
La copertina del libro
La copertina del libro

Ebbene, una volta tornato a casa la perdita di quell'esperienza tribale, comunitaria gli ha provocato un senso di spaesamento profondo, doloroso. Lo spaesamento che porta – non lo dice Junger, lo attestano i tanti studi clinici citati nel libro – centinaia uomini che hanno combattuto a lungo, che hanno visto la morte e odiano profondamente la guerra, a sentirsi perduti, soli, smarriti una volta rientrati in patria e privati della loro tribù, del plotone in cui militavano e con cui hanno condiviso un momento anche drammatico della loro vita.

Insomma, il saggio di Junger non ha paura di esplorare recessi poco frequentati e disturbanti della psiche umana, quei recessi che portano gli esseri umani a sentirsi più a loro agio al fronte ma in compagnia piuttosto che nel salotto di casa da soli.

Così come il giornalista americano ci mette sotto gli occhi i limiti della nostra civilizzazione, con la sua mancanza di solidarietà e il suo sospetto per ogni azione che è spontanea e disinteressata.

Soprattutto il libro ci ricorda quanto possiamo essere più forti e anche migliori quando uniamo le forze e quanto questo possa tornarci utile in società sempre più divise come quelle attuali. Società poco tribali e molto poco solidali.
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