"Debbono essere custodite e curate nei manicomi le persone affette per qualunque causa da alienazione mentale, quando siano pericolose per sé o per gli altri e riescano di pubblico scandalo". Tanto bastava nel 1904, quando fu emanata la prima legge italiana sui manicomi, per definire la devianza e la follia, e fissare i criteri per il ricovero coatto.

La psichiatria ci avrebbe messo parecchio tempo per definire meglio i contorni della malattia mentale, e nel frattempo l'odiosa legge di Giolitti avrebbe "ripulito" la società da tutti i soggetti sgraditi, matti o meno che fossero: persone stravaganti, omosessuali, prostitute, alcolizzati e pure bambini, da 0 a 14 anni, indesiderati, malformati o semplicemente nati in famiglie troppo povere per crescerli.

Franco Basaglia aveva davanti questa realtà quando si trovò a dirigere il manicomio di Gorizia a inizio anni '60, alle prese con metodi e trattamenti che di curativo avevano ben poco e rendevano l'istituto psichiatrico più simile a un carcere che a un ricovero sanitario.

Da qui l'idea di cambiare le cose, ridando dignità ai pazienti, aprendo i reparti e portando umanità in corsia, ma soprattutto dicendo basta ai tradizionali metodi di "cura" basati su elettroshock, camicie di forza, sedazione costante, denutrizione, sporcizia e alienazione.

Una storia a lieto fine? Purtroppo no, nonostante intenzioni nobili e idee visionarie, come ci spiega il dottor Antonello Tronci, dirigente sanitario del reparto psichiatrico dell'Ospedale Santissima Trinità di Cagliari.

Basaglia diceva provocatoriamente che alla psichiatria era stato dato il compito di tradurre la follia in malattia per "eliminarla" dalla società: oggi è ancora un tabù?

"La psichiatria come scienza ha l'ingrato compito di tradurre certi aspetti del comportamento umano in una malattia curabile, anche se il termine 'follia' non è calzante dal punto di visto medico. Con l'introduzione di nuovi farmaci, nel '54, si è potuto finalmente curare l'aspetto psicotico, ma la malattia mentale è anche altro, disturbi dell'umore e della personalità che sono collegati a innumerevoli fattori sociali, come l'educazione o l'ideologia. Impossibile quindi pensare di risolvere o eliminare la malattia, e ancor più folle - è proprio il caso di dirlo - l'atteggiamento di certi sedicenti 'basagliani' che riducono i problemi psichici all'esclusione sociale o bollano i medici che usano farmaci. E questo in presenza di dati e studi incontrovertibili che dimostrano, ad esempio, la familiarità e la predisposizione elevatissima di certe malattie mentali, indicando precisamente l'età in cui possono presentarsi. È una balla dire che le turbe psichiche siano dovute all'emarginazione".

Con la legge Basaglia si impone un modo nuovo di pensare la salute mentale?

"C'era soprattutto l'idea di superare la segregazione in cui vivevano i malati, perché fino ad allora esistevano realtà davvero aberranti, manicomi come carceri in cui finivano anche i bambini senza che vi fosse nessun controllo su quanto avveniva all'interno. Però, va detto, accanto a eccessi gravissimi potevano esserci realtà positive, perché il male non stava tanto nelle strutture quanto piuttosto nelle persone che lo gestivano. Lo stesso Basaglia non voleva cancellare le strutture di cura, ma cambiarle, perché nel frattempo nella società c'era stata un'evoluzione, così come nella medicina, superando visioni, approcci e metodi che erano valsi fino ad allora".

Tra l'altro era la prima legge al mondo ad abolire gli ospedali psichiatrici.

"Sicuramente era all'avanguardia, ma per onestà vorrei dire che forse altrove, in Paesi estremamente civili, non c'era l'esigenza di una legge simile perché non si verificavano maltrattamenti gravi come da noi".

Ad esempio?

"Le stesse conoscenze mediche di inizio '900 avevano dei limiti fortissimi, se si pensa che in assenza di farmaci si tentavano cure estreme come lo choc insulinico o termico, sperando che procurassero nei pazienti dei miglioramenti".

Due pazienti di Villa Clara
Due pazienti di Villa Clara
Due pazienti di Villa Clara

Pur con i limiti cui accennava, non trova che la legge abbia avuto indubbiamente dei meriti?

"Lo spirito rivoluzionario che c'era alla base era senz'altro autentico e sincero, senza secondi fini, ma per tanti aspetti l'idea di Basaglia è stata strumentalizzata, anche a fini politici. Era sacrosanto superare la realtà dei manicomi, ma bisognava pensare di sostituirli con qualcosa d'altro: è un po' come dire che siccome nelle carceri si sta male - altra realtà terribile che conosco indirettamente - allora bisognerebbe chiuderle. Va detto, poi, che nel 1978 influì anche un certo contesto politico, con la Dc indebolita sul tema del divorzio e dell’aborto, che portò a far passare in tutta fretta questa legge, ancora prima di pensare a come si sarebbe applicata. Ed è mancata quella legittima resistenza a dire 'un attimo, prima di chiudere i manicomi, pensiamo a come li sostituiremo'".

Con la chiusura si è creato un vuoto assistenziale, soprattutto per i malati più gravi...

"Nessuno ha avuto il coraggio, allora e in seguito, di dire che spesso quelle persone liberate dai manicomi si sono perse una seconda volta, o che a quella fuoriuscita è seguita una massa enorme di suicidi. Si è detto evviva per la chiusura dei manicomi, ma poi fuori ci si è scontrati con il problema di gestire i malati".

A 40 anni dalla legge si può dire che l'Italia abbia un'assistenza sufficiente ed efficace in ambito psichiatrico?

"Nessuno vuole tornare al passato e alla vergogna dei manicomi, ma la realtà oggi è che la legge, o la distorsione che ne è stata fatta, ha tolto la possibilità di offrire un servizio continuo a quei malati che non rientrano tra i casi più gravi, i cosiddetti 'acuti' o 'extra acuti', e così se un malato di depressione volesse essere ricoverato in un SPDC (Servizio psichiatrico di diagnosi e cura) rischierebbe di trovarsi accanto a patologici aggressivi o vittime di eccitamento maniacale, magari senza separazione tra uomini e donne. Il rischio è di arrivare ai reparti solo quando le condizioni diventano gravissime o per la disperazione delle famiglie, anche perché non si fanno accertamenti, non c'è personale per visite domiciliari e le risorse economiche sono pressoché inesistenti".

Le foto del manicomio Villa Clara a Cagliari

Uno scatto del reportage realizzato a metà anni '70 da Josto Manca negli edifici di Villa Clara a Cagliari
Uno scatto del reportage realizzato a metà anni '70 da Josto Manca negli edifici di Villa Clara a Cagliari
Uno scatto del reportage realizzato a metà anni '70 da Josto Manca negli edifici di Villa Clara a Cagliari
Gli esterni della struttura
Gli esterni della struttura
Gli esterni della struttura
I pazienti "non pericolosi" in un corridoio della struttura
I pazienti "non pericolosi" in un corridoio della struttura
I pazienti "non pericolosi" in un corridoio della struttura
L'ora d'aria a Villa Clara
L'ora d'aria a Villa Clara
L'ora d'aria a Villa Clara
La foto simbolo del reportage di Josto Manca nell'ala femminile del manicomio
La foto simbolo del reportage di Josto Manca nell'ala femminile del manicomio
La foto simbolo del reportage di Josto Manca nell'ala femminile del manicomio
Il refettorio
Il refettorio
Il refettorio
I degenti di Villa Clara durante una gita
I degenti di Villa Clara durante una gita
I degenti di Villa Clara durante una gita
I cancelli di Villa Clara
I cancelli di Villa Clara
I cancelli di Villa Clara
L'ala maschile con pazienti di tutte le età
L'ala maschile con pazienti di tutte le età
L'ala maschile con pazienti di tutte le età
Il momento del pranzo
Il momento del pranzo
Il momento del pranzo
L'abbraccio di un'infermiera a una paziente
L'abbraccio di un'infermiera a una paziente
L'abbraccio di un'infermiera a una paziente

Dal '78 a oggi: come si cura la malattia mentale in Italia:

Anticipata nel '68 da una legge dell’allora ministro della Sanità Luigi Mariotti che introduceva la volontarietà del ricovero, la legge Basaglia ha portato alla creazione dei Centri di Salute Mentale (CSM), dei reparti psichiatrici aperti 24 ore su 24 e delle Residenze per le Misure di Sicurezza (REMS). La parola fine è arrivata però solo qualche anno fa, con la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari, ultimo residuo della realtà manicomiale. Oggi resta il problema dello squilibrio territoriale nell'offerta dei servizi e il vuoto in cui sono lasciate tante famiglie che convivono con patologie psichiatriche, come ci illustra il dottor Tronci.

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Si spende sempre meno per l’assistenza psichiatrica, anche se le patologie sono in costante aumento.

"Da un lato c'è la mastodontica burocrazia che ci è piovuta addosso e che spesso ci impedisce di svolgere il nostro lavoro di medici, e dall'altro il personale che si dimezza, i tempi di attesa enormi per i Centri di Salute Mentale, le famiglie costrette ad arrangiarsi e in certi casi una certa impreparazione del personale medico. Una situazione allo stremo. Poi sento portare ad esempio il modello triestino - eredità diretta di Franco Basaglia - che però può contare su budget per altre Regioni impensabili e sulla collaborazione strettissima con l'Università".

In aggiunta quello psichiatrico è un ambito medico di per sé piuttosto difficile...

"Consideri che nel reparto in cui lavoro ci sono due tre persone per turno e un'accoglienza per 15 pazienti acuti, che possono diventare 20 o 25 e non possono certo esser rimandati a casa: che controllo possiamo avere su un numero tale di degenti? Quale rapporto e quale attenzione? Peraltro persone non semplici da trattare. E poi ci sentiamo dare degli aguzzini perché ricorriamo alle terapie farmacologiche o a metodi contenitivi, che poi sono atti medici previsti espressamente per far sì che il paziente diventi gestibile o per evitare che diventi aggressivo, o sessualmente molesto, magari verso altri pazienti o verso il personale sanitario. Ma di questo non si parla mai... Come si fa a controllare in due o tre persone un reparto così?".

Cosa affrontano le famiglie che hanno a che fare con la malattia mentale di un congiunto?

"Uno stato di abbandono totale di cui non si parla mai, se non quando sfocia nella cronaca nera e allora si tira in ballo erroneamente il 'raptus', quando invece scavando si scopre che nella maggior parte dei casi quelle persone avrebbero potuto, se controllate, essere curate e gestite. Ma ammettere questo da parte delle istituzioni vorrebbe dire ammettere di aver fallito nell'applicazione della legge e nella gestione del problema 'salute mentale'".

Barbara Miccolupi

(Unioneonline)
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