Terzo appuntamento con la serie di interviste "Diamo l'assalto al cielo": ricordi del Sessantotto in Sardegna, e questa volta a raccontarci la stagione irripetibile della contestazione giovanile è l'attore, regista e direttore artistico del prestigioso Teatro Stabile d'Innovazione Akroama di Cagliari Lelio Lecis, cresciuto tra Pesaro e Cagliari, accanto a una madre piuttosto in anticipo sui tempi, manager affermata e indipendente, che proprio allora è stata il principale bersaglio della sua personalissima ribellione sessantottina.

Com'era Lelio Lecis nel ’68?

"All'epoca avevo 14 anni, vivevo a Pesaro e correvo per la Benelli, di certo non mi interessavo di politica, ma ho vissuto comunque la ribellione di quel periodo. La mia lotta era tutta personale, contro mia madre, che rappresentava la cultura dominante e diffusa di allora, non perché avessi davvero qualcosa contro di lei, donna di grande spessore, quanto piuttosto perché ai miei occhi tutto era sbagliato nella sua vita ipocrita... Che poi non era nemmeno ipocrita, ma si voleva cambiare radicalmente la società".

Cosa aveva la società di fine anni '60 che proprio non andava?

"Non andava niente, dirlo adesso per me è difficile, ma non andavano le regole, l'apparato autoritario e l'immobilismo della società. Ma la ribellione, la rottura, erano iniziate molto prima dell'esplosione sessantottina, quando a inizio anni '60 in Inghilterra nasceva la prima minigonna con Twiggy, oppure per andare nel mio ambito, quello del teatro, quando Harold Pinter scriveva L'amante, e scuoteva la società borghese con la storia di un marito e sua moglie che giocavano altri ruoli per fare meglio sesso, inneggiando a una sorta di liberazione sociale e facendo finta di essere qualcun altro".

Allora aveva già la passione per il teatro?

"Quando stavo a Pesaro mi avevano scelto per fare il bimbo in una versione de I sei personaggi in cerca d'autore di Pirandello, perché a differenza dei ragazzi del posto, viste le mie origini sarde avevo una buona dizione...".

Poi è tornato in Sardegna in pieno "terremoto" sessantottino.

"Ho sempre mantenuto rapporti con l'Isola, anche quando ero a Pesaro, per me era l'Isola dell'infanzia, incantata e lontana, ma nel '69, quando sono rientrato ho trovato un senso di ribellione ancora più forte, forse perché si scontrava con una società più "ferma" che altrove. Anche se devo dire che in Sardegna il vero '68 è scoppiato più tardi, negli anni '70, quando il ribellismo generazionale ha preso i connotati del contrasto politico".

Ripensando a quel periodo con il senso critico della maturità, può descriverne aspetti nobili e i limiti?

"A mio modo di vedere, tra le conseguenze peggiori di quella stagione, un lascito pesante riguarda un aspetto di cui non si parla spesso, e cioè che l'aver messo in discussione il sistema scolastico di allora nelle sue fondamenta con gli esami collettivi, i contro-corsi e il voto politico, ha prodotto una generazione di laureati piuttosto impreparati soprattutto in ambito tecnico scientifico, somari che sbiadivano nel confronto coi loro padri. Io studiavo filosofia e nelle facoltà umanistiche questo aspetto è pesato meno, ma il fenomeno ha inficiato molto la società successiva. Altro limite, poi, è stato quello di non aver saputo creare una forte coscienza di classe e politica, o forse trasmetterla, se ancora oggi prendiamo per buoni certi comizi elettorali...".

Viene quasi da dire che era meglio prima.

"Facciamo un esempio pratico: alle superiori si insegnava educazione civica, ti spiegavano com'era composto il Parlamento, come si svolgeva la vita politica, poi, dopo il '68, una materia così fondamentale è sparita dalla didattica. Ma perché? In questo si può dire che io sia un pre-sessantottino: puoi infrangere le regole della società o della politica, però prima devi conoscerle".

Studenti durante una manifestazione nel '68
Studenti durante una manifestazione nel '68
Studenti durante una manifestazione nel '68

Da questa ignoranza sono venute anche le derive meno nobili del movimento studentesco, ad esempio quelle violente.

"C'è stato periodo in cui anche io, come tanti coetanei, sono stato fan delle Br, naturalmente prima che facessero stragi, e forse perché l'ideologia, anche la più spinta, era un prolungamento della ribellione. Dopo poco, però, c'è stata una rottura netta con chi è passato dalla violenza verbale a quella fisica".

Come reagivano alla contestazione le altre generazioni, e in particolare le vostre famiglie?

"La mia era una situazione particolare, mio padre era mancato quando ero piccolo e mia madre era una manager, una donna forte che aveva tanti uomini sotto di sé, per cui non sono ostacolato tanto per la mia ribellione politica, quanto per certi atteggiamenti di scontro prettamente personali, legati al rapporto madre-figlio. Le racconto un aneddoto che fa abbastanza sorridere: durante le manifestazioni di allora fui arrestato due volte, non perché avessi fatto qualcosa di particolare, in genere prendevano quelli più calmi e con la faccia da bravi ragazzi per poi rilasciarli subito dopo. Ma una volta chiamarono mia madre in caserma e lei a furia di domande li fece letteralmente neri, tempestandoli di domande e mettendo in dubbio la necessità del mio fermo. Poi, una volta fuori, fece nero me...".

A proposito di donne forti, qualche anno dopo il '68 sarebbe esploso il femminismo.

"Va premesso che sotto questo aspetto la Sardegna faceva storia a sé, per una tradizione matriarcale molto forte: mia nonna non aveva certo problemi di femminismo perché in casa governava lei, casomai era mio nonno che avrebbe dovuto ribellarsi... Battute a parte, il femminismo fu accesissimo, e anche in questo caso cito un aneddoto personale: ero all'Università e dovevo dare l'esame di pedagogia, mi sono ridotto a studiare gli ultimi tre giorni sugli appunti della mia fidanzatina che studiava per diventare insegnante. Risultato? Lei prese 24 e io 28 e per questa 'ingiustizia' scatenò una protesta generale femminista, non tanto contro di me, quanto contro la povera docente - donna validissima che poi sarebbe diventata rettore - accusata di 'esser stata succube del maschio' e di avermi favorito".

Tra ventenni di allora e quelli di oggi che differenze ci sono?

"È molto difficile dirlo, da anni seguo una scuola di teatro frequentata da tanti ragazzini e questo contatto mi fa dire che questa generazione è tutt'altro che sciatta come spesso viene descritta. Direi anzi che sono molto interessanti, hanno fantasia e concretezza, e spesso fanno domande che mi lasciano basito, domande intelligentissime e pienamente in linea coi tempi, come a dire che sono più avanti loro della società. La stessa impressione anche in altri contesti, ad esempio quando ho fatto regia in Germania e ho avuto a che fare con ragazzini che avevano almeno sei colori diversi nei capelli: forse questo è il loro modo di ribellarsi alla società".

Merito della scuola?

"È migliorata nell'approccio e secondo me si vede in modo più netto la differenza tra un bravo docente e uno pessimo, allora noi ci ribellammo proprio contro un mondo della scuola e una società molto uniformi, dove tra un maestro e l'altro potevano esserci sfumature ma dove i sistemi d'insegnamento tutto sommato erano omogenei. Oggi c'è di tutto, puoi trovare l'insegnante stimolante e accanto quello che sembra venire direttamente dagli anni '60".

Nella sua vita professionale e personale successiva cosa si è portato dell'esperienza sessantottina?

"Da figlio del '68 ho portato con me la voglia di trasmettere quel sogno, quello di un mondo diverso, in cui non ci si fermava allo scontato, ai luoghi comuni. Una volta ho detto a dei ragazzi che essere trasgressivi oggi vuol dire restare vergini fino al matrimonio: la rivoluzione è agguantare quello che della vita ti piace, che poi è stata la conquista di quelli che sono vissuti prima del '68. Come a dire che i nostri genitori forse erano più avanti di noi...".

(La quarta intervista a Loredana Rosenkranz uscirà giovedì prossimo)

Barbara Miccolupi

(Unioneonline)

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