Certo, due anni dopo sono arrivate le scuse. Da parte del Comune di Oliena perché un gruppo di ragazzi di quel paese ha ucciso mio figlio Tiziano. Ma cosa c'entra la comunità olianese con quel delitto? Niente. Non ha colpa di nulla. La colpa è tutta di quelle bestie che hanno fermato il camion di mio figlio, con la minaccia delle pistole gli hanno portato via i cinque euro che aveva nel portafoglio e poi le cassette di frutta e verdura destinate ai supermercati, poi forse perché li aveva riconosciuti lo hanno picchiato e gettato in un pozzo, a Manasuddas. Lasciandolo morire. No, non può esistere il perdono per certa gente. Non può esserci, mai. Mi aspetto per lo meno giustizia: che non escano più dal carcere».

NESSUN PERDONO Narciso Cocco, 70 anni, carpentiere in pensione, ha ancora lacrime da versare, due anni dopo. Mentre si prepara per la cerimonia ufficiale di rappacificazione tra i due paesi, Samassi e Oliena, non nasconde a nessuno quel che pensa, l'insostenibile inutilità di tutto. «Anche della mia vita, ovviamente. Dalla morte di un figlio, un padre non può più riprendersi neppure nel mio caso, neppure per rispetto agli altri tre miei ragazzi. Per un genitore un figlio resta sempre un bambino, resta tutto. Io ricordo ancora bene quel giorno, quando si è alzato alle 22,30 per il turno di guida notturno da autotrasportatore: non aveva fame, solo sonno. Non funzionava il suo telefonino, gli ho prestato il mio. Aspetto ogni giorno che rientri da quella porta, che ritorni a casa».

NELLA STANZA La moglie Assunta pulisce ogni giorno la stanza del figlio che non c'è più. «C'è la chitarra sul suo letto, suonava le canzoni di De Andrè, Conte e Capossela, c'è ancora tutta la sua roba dentro l'armadio, il suo telefonino, mai riparato, nel comodino, e la sveglia che gli aveva regalato il nonno». Anche una confezione di profumo Adidas, ancora a metà. E sue foto in ogni angolo. «Tutto è rimasto come quella sera, come se dovesse tornare». Tzia Assunta indossa un tailleur viola, lutto stretto, eterno. «Ogni giorno con mio marito andiamo in cimitero. Per l'occasione oggi ci siamo stati due volte. Il perdono? Per adesso è impossibile, è passato troppo poco tempo. In futuro chissà. Uno dei ragazzi accusati del delitto ci ha scritto una lettera, ma più per scaricare le colpe sugli altri che per chiedere perdono. Mio figlio era un lavoratore, un ragazzo buono: lo hanno ucciso con una ferocia difficile da descrivere. Ho solo un pensiero: chissà quante volte dentro il pozzo prima di morire ha invocato me, sua madre».

LA FEDE In questi casi un aiuto può darlo la fede in Dio. «Guardi - interviene di nuovo il padre Narciso - non è che io ci abbia mai creduto tanto, adesso poi penso soltanto che se Dio esiste, perché non ha protetto Tiziano? Perché gli ha fatto incontrare quelle bestie? Perché gli ha fatto fare quella fine? Perché ha permesso a quella gente di rovinare la vita mia, di mia moglie degli altri miei tre figli?». Cristianamente resta la speranza di rivederlo, alla fine dei giorni, in un altro mondo, per forza migliore di questo. «Io vorrei averlo adesso, mio figlio», piange Narciso Cocco, «lo vorrei al mio fianco davanti al caminetto ogni sera, invece no, non ci rivedremo mai più. Sa cosa le dico? Vorrei almeno poterlo sognare. Da quel maledetto giorno, il mio è un sonno senza immagini, irreale. Magari almeno in sogno vorrei di nuovo abbracciarlo e dirgli che gli voglio bene, che come gli altri fratelli e sorelle è la mia vita. Quella sera l'ho solo salutato normalmente, buon lavoro Tiziano, stai attento , convinto di rivederlo l'indomani».

PAOLO CARTA
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