Un sondaggio sull'opinione pubblica italiana a cura dell'Eurobarometro, rivela che i nostri connazionali ritengono l'Unione Europea incapace di abbassare il livello di disoccupazione (72%), risolvere la questione della migrazione (70%), contrastare il terrorismo (62%) e ridurre l'evasione fiscale (56%).

Inoltre, più di un intervistato su due ritiene che l'adesione all'UE non porti alcun beneficio né alla nostra economia, né alla nostra sicurezza. In particolare, sono gli ultracinquantenni, e nello specifico le donne, a manifestare una decisa insoddisfazione nei confronti dell'operato della Commissione.

Si tratta di dati sconfortanti, perché fotografano una situazione che non contribuisce a costruire quell'integrazione che le istituzioni europee intendono perseguire.

Non va meglio nel resto del continente. Basta ricordare come nelle ultime consultazioni per eleggere il parlamento di Strasburgo nel 2014, appena un cittadino europeo su due si recò alle urne e che l'esito delle consultazioni indicò come i partiti populisti ed euroscettici fossero in grado di puntare ad un ruolo di primo piano nei prossimi anni.

Infatti, il 30% dei seggi dell'attuale assemblea sono occupati da schieramenti che intendono mettere in discussione il concetto stesso di Unione e non escludono neppure di voler smantellare le regole che disciplinano la moneta unica (l'Euro) e il rispetto dei vincoli di spesa (pareggio di bilancio).

Quattro anni fa questo segnale è stato sottovalutato, soprattutto in Italia. Troppo forte era l'euforia per la vittoria del "nuovo" Partito Democratico, in grado di sbaragliare ogni competitore dall'alto di un risultato entusiasmante: il famoso 41 per cento di voti di renziana memoria.

Quel patrimonio elettorale autorizzò gran parte della classe politica italiana a ritenere la battaglia per l'integrazione europea ampiamente vinta, almeno nel nostro Paese.

Di conseguenza, gli stessi governi in carica nell'ultimo quinquennio decisero di interpretare lo spirito europeista a giorni alterni: un giorno critici, ma costruttivi; il giorno seguente costruttivi, ma critici. In questo modo, le prime forme di disubbidienza europea sono entrate in circolo nelle vene degli italiani, da sempre indicati come i cittadini più disponibili all'unificazione europea, in quanto storicamente meno nazionalisti di francesi, tedeschi ed inglesi.

Da quel momento, la Comunità Europea, percepita dagli italiani solo marginalmente, è diventata un'entità reale e determinante della propria esistenza ed ha assunto le vesti del maestro severo ed inflessibile che detta i "compiti" alle nazioni più indisciplinate.

Adesso appare assai arduo risalire la corrente: persuadere una popolazione molto sfiduciata su quanto sia preferibile "l'unità nella diversità", rispetto all'isolamento e alla contrapposizione.

L'operazione si rivela ancora più difficile, perché la stessa Unione europea appare alla costante ricerca di un'identità che spinga le persone a restarle fedeli, soprattutto in coincidenza con i momenti difficili e di crisi.

Al momento, l'euroscetticismo è un fenomeno trasversale: lo troviamo sia a destra, che a sinistra. Finora è risultato complicato combinare i principali partiti euroscettici intorno ad una programma condiviso, sebbene un aiuto in questa direzione venga fornito dall'incapacità di trovare risposte chiare e condivise sui temi che principalmente assillano quotidianamente i cittadini europei ed italiani: sicurezza, immigrazione e lavoro. Di conseguenza, laddove fallisce l'europeismo vince l'euro-ignoranza.

Attualmente, troppe voci discordanti rendono l'indirizzo politico comunitario incerto e anche le altre potenze mondiali fanno fatica a riconoscere una politica esplicitamente ed orgogliosamente europea.

Pertanto, non resta che ricordare amaramente una famosa battuta degli anni '70 attribuita a Henry Kissinger: "chi devo chiamare se voglio parlare con l'Europa?". Purtroppo, ancora oggi, non sappiamo cosa rispondere.

Marco Pignotti

Docente di storia della comunicazione politica - Università di Cagliari
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