Questa volta è diverso. Si è rotto qualcosa. In questi giorni c'era un silenzio nuovo, illogico, irreale, perfino paradossale intorno ad un fatto di sangue a cui era sempre più difficile credere.

Istituzioni che non riescono a spiegare, interi paesi increduli, la paura che si insinua in rivoli dovunque, l'incapacità di dare un nome ad un fatto che sembra troppo forte.

Ma è così strano?

Sullo sfondo sembrano agire fatti di droga, leggera o no: forse è proprio questo che i signori della droga vogliono, potremmo pensare: che il silenzio e l'indifferenza coprano tutto, come una coltre che tutto omologa e tutto appiattisce.

Ma il silenzio, in realtà, non è solo indifferente: è attonito e impaurito. Attonito perché siamo di fronte a qualcosa che proprio non ci aspettavamo. Impaurito perché ci rendiamo conto improvvisamente che qualcosa è completamente cambiato.

Indifferenza, forse, e paura, tanta: certo, ma anche spaesamento. Come dice il mio amico psicologo di Zuri Pier Paolo Cavagna, "il Mulino Bianco non c'è più da anni". Ma c'è mai stato?

In questi anni i fatti di sangue si sono ritmicamente succeduti, ogni volta diversi e inspiegabili, sempre ammesso e non concesso che si possa spiegare un fatto di sangue. Ma forse occorreva che l'asticella si alzasse perché ci rendessimo conto che la coltre rischia di coprire tutto. Ci si chiede perché. L'educazione, la scuola, la famiglia... sono le parole/spiegazioni/cause/rimedi ricorrenti.

Ma bastano per spiegare?

Come è stato giustamente sottolineato, i fratelli e le sorelle dei minorenni omicidi sono bravissime persone.

Qualcosa è cambiato, sì, ma non tanto o solo nell’accadere dei fatti di sangue, quanto piuttosto nella qualità di questi fatti e nel contesto in cui accadono. Ragazzi che uccidono un amico senza un senso apparente, da una parte, mentre dall’altra c’è una comunità che non comprende e non riesce a comprendersi. Di più, non riesce a ritrovarsi come vorrebbe.

La scommessa, allora, sta nel riemergere dalla coltre omologante, nell’affrontare il silenzio, nel cercare di dare un senso alle cose. Con quali forze? Le nostre: non ne abbiamo altre. Attraverso quali percorsi?

Ri-costruendo relazioni a partire dalla tentazione dell’appiattimento, del nulla lineare, dell’indifferenza per andare verso chi abbiamo vicino, che sia simpatico o no.

Occorre guardarsi negli occhi per essere Comunità. Non bastano le scuole, la stazione dei Carabinieri, l’Ufficio postale, che pure sono importantissimi presidi: la Comunità si guarda, si parla, si confronta, urla e litiga, se è necessario. E poi è capace di piangere insieme.

Essere adulti significa stare nello sguardo, nella parola, nel conflitto e nel pianto senza fuggire per sfuggire al dolore: in una parola, nella responsabilità.

È ciò che ci si aspetta da noi famiglia, scuola, Comune, Servizi, parrocchia, ma anche vicini di casa, amici del bar, clienti del market... è così, solo così che si può dare un nome al dramma ed un senso all’accadere. È così che può partire e maturare il lutto dal quale non dobbiamo e non possiamo fuggire.

Da lì forse possiamo costruire e ricostruire pazientemente quelle reti di vicinato e di comunità, reti umane e sociali delicate e tuttavia fortissime che tengono in piedi la nostra identità.

Angela Quaquero

Presidente Ordine Psicologi della Sardegna
© Riproduzione riservata