«È la fine di un mito», quasi una litania quella che si sgrana nei commenti su tutti i principali social network. Perché “Grazianeddu” un mito lo era diventato sul serio. Nel bene e nel male, con la bilancia a pendere di più su questo secondo piatto.

La sua fierezza, più ancora che le sue incredibili evasioni, gli avevano cucito addosso il manto dell’invincibilità, l’armatura di velluto marron scuro divenuta lo smoking del bandito gentiluomo, icona della balentìa per almeno un paio di generazioni.

La droga, però - e lo ha ribadito anche Saviano davanti alle migliaia di cagliaritani accorsi a sentirlo al Bastione - non è cosa da balentes. E allora?

E allora è possibile che anche il “duro” Mesina possa aver ceduto alle lusinghe del “dinero”, come lo ha chiamato Papa Francesco, parlando ai bambini accorsi alla sua udienza. Quei “soldi, soldi, soldi” che sono il vero motore della nostra epoca post-industriale, idolo incontrastato ad ogni latitudine di una religione che non fa martiri e tutti beatifica senza processi e miracoli.

Mesina era diventato un mito non tanto per le sue gesta ma perché caduto, più e più volte, aveva saputo risollevarsi e rialzare il capo con quella fierezza che diventa irresistibile quando si accompagna alla conversione e alla redenzione.

Ora è di nuovo nella polvere. Il mito si sfalda, forse per sempre.

A meno di una nuova, clamorosa “evasione”. Non dal carcere, ma - questa volta - dal mito.

Per uscire definitivamente dalla leggenda ed entrare nella storia.

Quella degli uomini.
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