Quando Sergio Marchionne, morto oggi in una clinica di Zurigo per le complicazioni di un delicato intervento alla spalla, arrivò in Fiat era il 2004.

In pochi in Italia conoscevano questo imprenditore abruzzese, all'epoca 52enne, naturalizzato canadese: qui si trasferì all'età di 14 anni con il padre, carabiniere in pensione in cerca di opportunità per i figli.

Quattordici anni fa si trovò davanti un'azienda con un bilancio disastroso: ricavi a 47 miliardi di euro, 7 miliardi in meno del 2002, un indebitamento netto intorno ai 15 miliardi e perdite per circa 2 miliardi, con un rosso operativo di 500 milioni: il fallimento era a un passo.

Decise di cambiare tutto, dimezzando i livelli gerarchici da nove a cinque, scegliendo il "tu" invece del "lei", e pretendendo "flessibilità bestiale" e "imprevedibilità", per spiazzare i concorrenti. Nel 2005 annunciò 18 miliardi di euro di investimenti, con il lancio di 20 nuovi modelli e il restyling di altri 23. Per dirne due di successo: la Grande Punto e la Nuova 500.

Dopo il blitz del 2009, portò nel 2014 Fiat a ingoiare il 100% di Chrysler, facendola diventare Fca, il settimo produttore mondiale di automobili.

In 14 anni questo manager sempre in maglioncino blu, che si alzava alle cinque del mattino e leggeva per un paio d'ore i giornali (prima il Financial Times e il Wall Street Journal, poi quelli italiani) ha trasformato il gruppo in un colosso globale, segnando ricavi per 110,9 miliardi di euro e profitti per 3,51 miliardi. A metà 2018 il debito netto è addirittura azzerato.

"Sergio - ha scritto il presidente di Fca John Elkann nella lettera che ha indirizzato ai dipendenti - ci ha insegnato ad avere coraggio, a sfidare lo status quo, a rompere gli schemi e ad andare oltre a quello che già conosciamo".

(Unioneonline/D)

IL DOPO MARCHIONNE:

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