Intervista a Roberto Zanda, l'ultrarunner cagliaritano costretto a subire amputazioni agli arti dopo essere rimasto al gelo per ore durante una maratona estrema in Canada.

Roberto Zanda, cosa sogna la notte?

"All'inizio, quando ero a Whitehorse, non facevo molti sogni. Ero vuoto dentro, scarico di emozioni. Non pensavo che sarei sopravvissuto, andavo per inerzia, soltanto il mio istinto mi diceva di crederci".

E adesso?

"La notte dopo l'operazione ho avuto incubi: vedevo persone amputate, sangue, mi risvegliavo. Ma la mia psicologa mi ha insegnato a non buttar via neanche i sogni cattivi. Cerco di conservare quelli buoni e mi rifugio in un angolo nascosto della mente, come fanno i bambini con la casa sull'albero. Lì trovo serenità con cose che sono soltanto mie".

Quando ha capito di essere salvo?

"Ancora non lo penso. Aspetto di essere a casa con mani e piedi".

Si è dato una nuova carta d'identità, giusto?

"Esatto. C'è scritto Pier Roberto Zanda, nato a Whitehorse, Canada, il 6 febbraio 2018. Professione: atleta estremo. Anzi paratleta. Altezza (guarda le gambe amputate e abbozza un sorriso amaro )... ancora non lo so".

Come pensa di affrontare la nuova vita?

"Come ogni bambino appena nato, devo imparare dai piccoli passi. Conoscere le mie nuove mani, per esempio. Le guarderò con curiosità per capire cosa mi daranno. Ma sono ottimista, penso si potrà andare avanti bene. Vedo tutto questo come un aspetto della vita. Alla fine la notte della tragedia ho pensato giusto".

In che senso?

"Decidendo comunque di vivere, di non arrendermi. È stato il pensiero di mia moglie a darmi la molla per inseguire la salvezza. E, alla fine, da cattolico, ho chiesto a Dio di salvarmi. Anche prendendosi mani e piedi se serviva".

Come immagina il rientro a casa?

"Sarà particolare, sembrerò un po' un robot, ma me lo immagino gioioso. Sapere di poter camminare mi dà tante possibilità. Oggi anche solo l'idea di affacciarmi alla finestra mi sembra fantastica. E poi non vedo l'ora di tornare in Sardegna. Sarà un grande giorno. Sto già programmando la mia nuova vita".

In Sardegna in tanti la seguono con emozione.

"Non mi aspettavo tutto questo affetto. È stata una botta emotiva molto grande, ce l'ho ancora dentro e sta lasciando un segno. Non pensavo che mi seguissero così. Sarà emozionante vedere in faccia le persone che hanno pianto come me in quelle notti, che si sono commosse. Tutti abbiamo una parte emotiva che viene fuori in questi casi. Adesso però spero che tutto passi velocemente".

Si considera ancora un atleta?

"Un paratleta: sono rientrato in questa categoria, io che li guardavo con ammirazione, all'Amsicora, che stimavo Alex Zanardi e Cristina Sanna. E pensavo: chissà come mi comporterei, senza piedi o seduto su una carrozzella. E adesso ci sono e ci sarò d'ora in poi. E tutto sommato sono abbastanza felice di far parte di questa categoria di atleti. Mi chiedevo come avrei reagito e oggi dico che ho reagito bene, per ora. Mi mancano gli arti, ma riuscirò ad andare avanti nella vita quotidiana".

Le va di parlare della Yukon Arctic Ultra?

"Certo, perché no?".

Se un atleta sardo venisse a chiederle dei consigli?

"Gli direi di avere una grande preparazione fisica e mentale. Il freddo non è un gioco, è molto pericoloso. Gli consiglierei di mangiare in continuazione, io non ho avuto problemi perché avevo sempre la giusta carica. E poi ci vuole una forte motivazione. La mia è rappresentare una terra come la Sardegna. E, con questi accorgimenti, la consiglierei, anche se io non mi sono divertito. Sono uno da deserto".

E agli organizzatori cosa consiglia?

"Di tutelare la sicurezza degli atleti. Anche se uno firma liberatorie, non è il caso di lasciarlo 14 ore da solo. Sarebbero bastate due o tre motoslitte a pattugliare il percorso e tutto ciò non sarebbe successo. Sono certo che nel 2019 tanti si iscriveranno ancora ma l'organizzazione cambierà qualcosa e io avrò fatto da cavia per rendere la gara più sicura. Pagherò il prezzo per tutti".

Carlo Alberto Melis

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