I l Presidente del Consiglio si recherà in Senato fra qualche giorno, il 29 aprile, per comunicazioni sul Recovery Fund. Il piano italiano dovrebbe essere consegnato alla Commissione europea il giorno successivo. Se Mario Draghi fosse l'amministratore delegato di una grande azienda, e non il primo ministro italiano, si direbbe che è stato assunto proprio per quello: scrivere un piano credibile, dopo i tentennamenti e le idee un po' curiose (inclusa una “cabina di regia” con gli amministratori delegati delle imprese di Stato, identificate come braccio operativo e beneficiario designato del Recovery) del suo predecessore.

Forte della sua esperienza a Francoforte e prima ancora degli anni passati a Roma al Ministero del Tesoro, non c'è dubbio che Draghi invierà un piano con tutti i crismi. Il problema, però, che più che lui riguarda tutti noi, è che attorno al Recovery si è creata nel Paese una aspettativa spropositata e, potenzialmente, pericolosa. Da questi fondi dell'Unione europea, che in parte sono trasferimenti ma in parte sono anche debito (Bruxelles emetterà debito per 150 miliardi l'anno, per il periodo di questo programma straordinario), ci aspettiamo sia che curino le ferite della pandemia, sia che rimettano l'Italia su un sentiero di crescita che non percorriamo da anni.

Il nuovo debito, per quanto “europeo”, dovrà essere ripagato, e questo significherà che gli Stati membri dovranno accettare almeno una fra due condizioni.

I n sostanza: o un trasferimento di base imponibile verso Bruxelles (per esempio una nuova imposta “comunitaria”), oppure un contributo che, nel corso degli anni, andrà a rendere quanto ora preso a prestito.

Le risorse che andranno al nostro Paese sono ingenti, anche perché il Covid-19 ha trovato un'Italia con molte comorbidità e anni di riforme non realizzate alle spalle. Ma si tratta pur sempre di risorse che equivalgono grosso modo a quelle stanziate per cinque finanziarie del genere che si facevano negli anni ante-Covid. Sono tanti quattrini, ma non è la pentola d'oro alla fine dell'arcobaleno. Intanto ci indebitiamo di più anche noi, con un nuovo scostamento di bilancio di 40 miliardi e una linea di finanziamento complementare al Recovery Plan da circa 30 miliardi.

Del resto, con toni trionfalistici i giornali hanno annunciato che l'Italia ambisce ad avere “tassi di incremento mai sperimentati nell'ultimo decennio”: nel 2021 la crescita del Pil è attesa al 4,5%, nel 2022 al 4,8%, nel 2023 al 2,6%, nel 2024 all'1,6 . Bisogna però ricordarsi che a crescere del 4,5% sarà un Pil che è diminuito del 9% lo scorso anno e che quindi nei tre anni non compenseremo quanto perso.

Detto questo, le previsioni sul Pil sono sempre un esercizio da indovini. Ciò che il governo meglio controlla è la finanza pubblica. In questo caso, ci aspettiamo nel 2025 di tornare a un deficit “normale” del 3% del Pil. Qualche anno fa i governi giocavano a posporre il pareggio di bilancio, ora un deficit che era, nel mondo di ieri, il massimo che pensavamo di poterci consentire. Lasciare un Paese più indebitato alle nuove generazioni non è far loro un favore. Sarebbe opportuno almeno porsi un problema, invece aspettarsi chissà quali magie dal Recovery Fund.

L'Italia molto spesso è parsa una specie di calabrone che vola: nonostante tutti i suoi problemi, la pubblica amministrazione, la giustizia, le tasse, l'ipertrofia legislativa, siamo riusciti a navigare in acque pericolose senza mai andare a picco. Questo perché c'è un pezzo di questo Paese nel quale lo spirito imprenditoriale è una pianta con radici robuste, che resiste alle tempeste. Un'imprenditoria magari piccola o piccolissima, ma vivace, ingegnosa, capace di arrangiarsi e occupare spazi interstiziali. In parte, una imprenditoria che ha avuto uno straordinario successo internazionale, con le nostre esportazioni che hanno compensato molte inefficienze del Paese.

Il guaio di parlare solo di Recovery Fund, e di averne fatto la grande promessa del riscatto nazionale, è che può darsi che parte di quel mondo imprenditoriale scelga di abbeverarsi a quella fonte: decida cioè di mettere le sue energie non in nuovi progetti, in tentativi di crescita sui mercati, bensì in iniziative che possano beneficiare della generosità della mano pubblica. Alcune di queste iniziative potranno essere assai utili e magari anche ben congegnate ma il rischio vero è che questo fiume di risorse, e più ancora la centralità che la classe politica ha deciso di assegnarvi, ci restituisca un'Italia delle imprese ancora più dipendenti dalla mano pubblica.

Nella vita delle persone come in quella dei Paesi, si riesce a migliorare la propria situazione con l'impegno, la fatica, ogni tanto anche la fortuna. Ma è difficile che si possa tornare a crescere grazie alla manna dal cielo. Nel nostro caso, aspettiamoci lotte furibonde fra gruppi d'interesse e una lunga fila di persone in coda per le briciole.

ALBERTO MINGARDI

DIRETTORE DELL'ISTITUTO

“BRUNO LEONI”
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