H a sollevato una marea di polemiche l'inchiesta di Trapani sul traffico di esseri umani dalla Libia che coinvolge 21 persone, tra queste alcuni membri delle ong Save the children e Medici senza frontiere. Al punto che la ministra della Giustizia ha disposto accertamenti.

Cosa è successo? Col deposito degli atti, dopo cinque anni di indagini, si è saputo che sette giornalisti di diverse testate italiane sono finiti sotto intercettazione e le loro fonti svelate al mondo intero. Le conversazioni di sei cronisti sono state captate mentre parlavano con alcuni indagati.

S olo per Nancy Porsia, freelance che ha seguito le attività delle ong per Repubblica, Sky tg 24 e il sito Tpi, è stato invece autorizzato l'ascolto delle conversazioni sul cellulare per sei mesi. Imbarcata su una delle navi al centro delle indagini, la giornalista aveva contatti con alcuni indagati: questo è il motivo per cui si è deciso di attivare gli ascolti. Più volte interrogata come testimone dalla polizia giudiziaria, Porsia dice di essersi «sempre messa a disposizione degli inquirenti, sperando fortemente nella giustizia. Ho dato loro importanti informazioni sulla rete dei trafficanti e sulle loro connivenze con la politica in Libia come Italia. Loro sapevano che la mia vita era in pericolo, anzichè proteggermi mi intercettavano». Evidentemente volevano sapere di più. Quale modo più facile di arrivare alle fonti della giornalista che sentire le sue telefonate? Niente di illegale, sia chiaro: è tutto previsto dalla legge. Anche una persona non indagata può essere intercettata se l'obiettivo è quello di individuare gli autori di un reato: basti pensare ai parenti di un sequestrato che trattano coi rapitori o alla vittima di un'estorsione che denuncia il fatto ma per paura non fa i nomi.

Qui però non è in discussione la liceità del provvedimento che è stato chiesto dalla polizia giudiziaria, condiviso da un pubblico ministero e autorizzato da un giudice. I risultati, peraltro, sono stati alla fine messi a disposizione delle parti coinvolte nell'inchiesta penale, anche se il procuratore di Trapani ha detto che non utilizzerà le conversazioni dei giornalisti, e per questo non compaiono nell'informativa finale. Quindi, par di capire, quelle conversazioni sono inutili ai fini dell'indagine.

Qui ci si domanda invece dell'opportunità dell'iniziativa giudiziaria. Per capirci: tra le altre cose gli inquirenti hanno approfittato dei contatti di due giornalisti dell'Avvenire per scoprire chi avesse fornito loro un video che documentava le torture subite dai migranti in Libia. Non c'era altro modo?

I giornalisti sono tenuti a proteggere le loro fonti, lo dice il Codice deontologico e, pur con alcuni distinguo, anche il Codice di procedura penale. Con le intercettazioni si aggira l'ostacolo e si percorre la via più facile. Succede anche con le perquisizioni. È un fatto recente: per scoprire chi avesse consegnato un esposto, peraltro non ancora presentato, quindi era intuibile provenisse dall'autore, una Procura sarda aveva disposto la perquisizione di computer e telefonino di una cronista, per di più bloccando l'accesso alla redazione per ore.

Sembra perfino banale ma non tutto quello che è legale è anche giusto. Nel momento in cui si svelano le fonti di un cronista questi viene irrimediabilmente messo fuori gioco: chi mai si potrà più fidare di lui? Il problema è come sempre quello di contemperare i diversi valori da tutelare. In questo caso c'è la giustizia, considerata un interesse superiore; la privacy, rivendicata da tutti; la libertà di stampa, valutata come propria dei giornalisti.

Niente di più sbagliato: quello all'informazione è un diritto della collettività, il singolo cronista è solo un mezzo. Non si dovrebbe mai dimenticare, neppure quando si indaga su fatti gravi, che garantire il diritto di cronaca equivale a tutelare un interesse della comunità che, attraverso i giornalisti, come nel caso del traffico di immigrati dalla Libia, viene a conoscenza dei fatti.

Le scorciatoie, seppur legali, sono una deriva pericolosa.

MARIA FRANCESCA CHIAPPE
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