U n passeggero sbarcato a Golfo Aranci dopo essere risultato positivo al tampone antigenico si è sottoposto a quello molecolare. Prima che gli fosse notificata la positività anche al nuovo test è sparito. Ma ha fatto poca strada: è stato rintracciato dalla Polizia e costretto alla quarantena. Tutto questo ci rassicura soprattutto in vista delle vacanze di Pasqua col possibile arrivo dalle zone rosse di tanti proprietari e affittuari di seconde case in Sardegna: i controlli funzionano. Però: non servono a nulla, stando a due recentissime sentenze che, argomentando in punta di diritto, demoliscono il sistema di restrizioni e sanzioni in campo da un anno per contenere l'epidemia.

Sentite qui: chi viola la quarantena, pur consapevole di essere positivo, non commette alcun reato. Dunque non rischia l'arresto da 3 a 18 mesi e l'ammenda da 500 a 5.000 euro come previsto dal decreto legge del 25 marzo 2020. Con buona pace di quel poliziotto che si è preso la briga di scovare il passeggero in fuga. La decisione arriva dal giudice per l'udienza preliminare del Tribunale di Milano: accogliendo la richiesta della Procura, ha prosciolto un'imputata positiva al Covid che ha violato gli obblighi di quarantena andando via dall'ospedale dov'era ricoverata. E sapete perché? In sede di conversione del decreto in legge è stata fatta un'aggiunta: la quarantena deve essere «applicata» dal sindaco «quale autorità sanitaria locale». E nessuno, o quasi, lo fa. Non si tratta di una decisione isolata: pendono decine di richieste di archiviazione analoghe perché questa è la linea dei pm di Milano.

E allora? Test, tamponi, controlli, tracciamento: tutto inutile? Il Viminale ieri ha diffuso i dati dell'ultimo fine settimana: sono 16 le denunce per violazione degli obblighi di quarantena. I destinatari potranno stare tranquilli se la linea lombarda farà scuola. Del resto, la sentenza è tutt'altro che campata per aria: non a caso pare che Roma abbia chiesto le motivazioni. Per correre ai ripari. Un anno dopo. Direte: se il positivo va in giro risponde comunque di epidemia colposa. In teoria. In pratica davanti a un giudice occorre provare il nesso di causalità, non sempre facile.

Bisogna agire nel rispetto delle norme, è vero, ma anche ragionare in concreto sui diritti. Prevale quello del positivo a circolare in assenza di un'ordinanza del sindaco o quello di tutti gli altri a non essere contagiati? Quando si tratta dei diritti inviolabili della persona non si scherza e la libertà individuale può essere toccata solo nei casi e nei modi tassativamente previsti dalla Costituzione. Giusto. Ma su questa strada si arriva al paradosso della recentissima decisione di un giudice di Reggio Emilia: no al decreto penale di condanna per due persone che hanno firmato un'autocertificazione falsa. Durante il lockdown del marzo 2020 sono uscite per andare dal medico e non era vero. Ebbene, secondo quel giudice l'obbligo di stare a casa è una limitazione alla libertà personale, come l'arresto. Quindi: può arrivare soltanto dal giudice. Sarebbe insomma necessario un provvedimento - individuale - dell'autorità giudiziaria diretto a ogni singolo cittadino, nel rispetto dell'articolo 13 della Costituzione. In più: il Dpcm che ha imposto il lockdown non ha forza di legge, e già questo basterebbe. Ma se anche le restrizioni fossero previste da una legge sarebbe lo stesso. Dunque, chi autocertifica il falso non commette un reato perché è illegittimo il Dpmc che prevede l'autocertificazione. Imputati assolti. E non ritiene quel magistrato neppure di dover interrogare la Corte costituzionale: il Dpcm, in quanto atto amministrativo, se illegittimo può essere disapplicato dal giudice di merito.

Sulla correttezza giuridica di questi verdetti potranno esercitarsi gli esperti di diritto ma per la maggioranza delle persone i provvedimenti restrittivi sono stati indispensabili per arginare la pandemia, soprattutto in un momento in cui non solo non c'erano i vaccini ma neanche i tamponi, per non dire dell'introvabile gel per le mani e delle mascherine a prezzi stellari.

Dal Palazzo di giustizia però non è ancora tutto. È intervenuta pure la Cassazione: chi apre il ristorante o il bar o il negozio o il centro estetico durante il lockdown, o in zona rossa, non commette il reato previsto dall'articolo 650 del Codice penale. Per il semplice motivo che un mese dopo la sua introduzione è stato depenalizzato: illecito amministrativo.

Non si vuole qui entrare nel merito di decisioni che sollevano dubbi dei quali si discute da dodici mesi. Ma è innegabile che la pandemia ci ha messo davanti a problematiche di grandissimo spessore che toccano la libertà individuale, inviolabile e tutelata dalla Costituzione. Le questioni di diritto, spesso di difficile comprensione, si riflettono sulla vita di tutti e allora il legislatore dovrebbe finalmente affrontarle. Davanti a un'emergenza sanitaria è impensabile che le compressioni della libertà personale - ovviamente limitatissime - possano essere decise solo dal giudice. Qualche strumento normativo andrebbe forse cambiato. Per evitare che il malato sia libero di contagiare gli altri e i milioni di fogli che abbiamo diligentemente compilato dal marzo 2020 diventino carta straccia.

MARIA FRANCESCA CHIAPPE
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