M ai come in questa occasione suona attuale e veritiera la frase pronunciata 150 anni fa da Otto Von Bismarck: «La politica è l'arte del possibile». Il relativismo contenuto nell'aforisma del cancelliere di ferro ha trovato applicazione nel governo varato ieri in Italia. Chi avrebbe mai detto, solo un mese fa, che sarebbe nato un esecutivo composto da tecnici e politici e rappresentativo di tutto l'arco parlamentare ad eccezione della destra di Giorgia Meloni? Era difficile immaginarlo ma è successo. E in attesa di capire quali saranno le ricadute sulle sorti future del Paese è utile riflettere ancora un attimo sulla genesi dell'operazione e le condizioni che hanno reso possibile quella che - al di là di ogni prematuro giudizio - si configura come un'autentica svolta.

Si è detto, ma occorre ribadirlo, che Matteo Renzi ha fatto da detonatore, provocando il crollo del Conte bis, un governo che non riusciva più a stare dietro alle drammatiche emergenze del Paese, impegolato com'era fra i Dpcm notturni e gli eterni dissidi fra le varie anime dei 5 Stelle e il tentennante Pd. L'ex sindaco di Firenze ha avuto l'indiscusso merito di mettere a nudo una palese prova di impotenza e inettitudine, e quel sistema è completamente saltato. Renzi ha subìto una campagna d'odio sui social. Accusato di aver agito per interesse personale, il suo partito ha tuttavia ottenuto un solo dicastero, due in meno di quanti ne avesse con il governo giallorosso. In certe narrazioni di parte, evidentemente qualche conto non torna.

U n peso decisivo l'ha avuto naturalmente Mattarella che non accontentandosi più del ruolo di arbitro ha preso in mano la situazione e convinto Draghi, la grande riserva italiana rimasta in panchina, a scendere in campo. Nell'esecutivo che ieri ha giurato c'è molto del presidente della Repubblica: ha preteso ed avuto l'allargamento del perimetro di maggioranza ritenendo impossibile affrontare le drammatiche sfide che attendono il Paese con i voti di qualche parlamentare raccattato qua e là.

Per giungere a questo risultato, che da oggi in poi andrà valutato serenamente, si è reso necessario che arrivasse a compimento la mutazione genetica dei 5 Stelle, un partito che - occorre ricordarlo - detiene il maggior numero di seggi nelle due Camere. Non senza traumi, e a costo di abbandonare al loro destino i frondisti guidati da Di Battista, ha prevalso la linea governista imposta da Grillo e Di Maio. È scaduto il tempo dei “vaffa”, il Parlamento non è una scatoletta di tonno da aprire ma un'Aula dove occorrono scelte ponderate e non slogan buoni solo per la piazza.

Anche Salvini ha dovuto cambiare pelle. L'eterno comiziante ha avuto l'accortezza di ascoltare Giorgetti, l'uomo che guiderà un dicastero importante e che rappresenta il moderatismo dell'operoso Nord, quel popolo delle partite Iva che reclama investimenti e un corretto utilizzo dei miliardi che arriveranno dall'Europa. Una conversione sulla via di Bruxelles, quella di Salvini, che ha spiazzato il Pd, costringendo i democratici ad abbandonare la politica degli inutili veti contrapposti. Forza Italia ha aderito convintamente alla nascita del nuovo esecutivo. Probabilmente recrimina per l'esclusione di una figura di stampo europeista come quella di Tajani ma entra in partita con politici di lungo corso.

Poteva nascere una squadra migliore? Era davvero necessario riconfermare Di Maio e Speranza? Alcuni commentatori pongono legittimi dubbi. Non sono però quelli di Travaglio, che dando fiato agli orfanelli di Conte, e sfidando il ridicolo, si ostina ancora a rimpiangere i vari Toninelli, Azzolina ed Arcuri.

Va da sé, peraltro, che non sono tutte rose e fiori quelle che attendono Draghi. L'esecutivo è chiaramente il frutto di un compromesso, è un governo di unità nazionale che mischia grandi competenze tecniche nei dicasteri-chiave (e qui c'è la mano di Supermario) con la presenza di molti politici. È - mutuando un termine sportivo - un esecutivo dove i ministri dovranno marcare a zona e la competizione, sul modello anglosassone, inusuale per noi, verterà sulla bontà del lavoro svolto. Quel che appare evidente è la necessità di ricondurre in secondo piano gli equilibri interni ai partiti: sono un bene molto meno prezioso rispetto all'interesse generale di un Paese in ginocchio. Il Recovery Plan, con le sue riforme di struttura, deve durare sino al 2026 e va stilato subito e bene. Non è più l'Italia della lotte tra guelfi e ghibellini, berlusconiani e antiberlusconiani, tra europeisti e sovranisti. Questo è un governo dove son tutti (o quasi) dentro e il dovere della massima responsabilità non esenta nessuno. Ora non ci sono più alibi.

A Francoforte, ai tempi della Bce, Mario Draghi spariva spesso al momento delle photo opportunity. “Where is Mario?”, dov'è Mario, era la frase usata per rimarcare la sua discrezione, la volontà di restare solitario, concentrato sulle cose che contano. Da oggi Draghi ha la possibilità di dimostrare che ha la capacità di compiere davvero missioni impossibili. Auguri: sia lui che l'Italia ne hanno un disperato bisogno.

MASSIMO CRIVELLI
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